Migranti in Albania e ‘Vite di scarto’

Esaminando l’articolo del Fatto Quotidiano1 riguardante il trattenimento dei migranti in Albania e collegandolo con le teorie di Bauman sviluppate in ‘Vite di scarto’2, possiamo notare diverse connessioni tematiche, specialmente riguardo la marginalizzazione, la ghettizzazione e lo scarto umano.

‘Vite di scarto’ e migranti

Bauman descrive le “vite di scarto” come quelle persone che, in un contesto globalizzato, vengono considerate inutili dal sistema economico e sociale, proprio come gli oggetti rifiutati. Nell’articolo, i migranti trattenuti in Albania vengono trattati secondo una logica simile: sono persone “scartate” dalle politiche migratorie italiane, che cercano di gestirle in luoghi esterni al territorio nazionale (l’Albania in questo caso). Questi individui, spesso provenienti da paesi considerati sicuri per alcune categorie e non per altre, diventano parte di un processo di esclusione in cui vengono trattati come un “problema” da spostare e confinare fuori dai confini europei.

Esclusione sociale e ghettizzazione 

Il tentativo del governo italiano di trattenere i migranti in Albania rappresenta una forma di ghettizzazione geografica. Trasferendoli fuori dal proprio territorio, l’Italia cerca di creare una barriera fisica e simbolica tra sé e questi “scarti” umani. Bauman descrive questo fenomeno come parte di una strategia di esclusione sociale: le persone indesiderabili vengono spostate in spazi isolati, lontani dagli occhi del pubblico, dove possono essere controllate senza disturbare il resto della popolazione. Il trattenimento dei migranti in Albania è un esempio di come i governi possano tentare di confinare le persone “scartate” in aree marginali, lontano dai luoghi di appartenenza e dalle opportunità di integrazione.

Spreco umano e cultura del consumo

Bauman, nel parlare del “consumo” di vite umane, osserva come il capitalismo globalizzato generi continuamente persone che diventano “inutili” per il sistema, analoghe ai rifiuti prodotti dal consumo di beni materiali. Nell’articolo, i migranti sono trattati secondo una logica simile: vengono considerati “superflui” e, di conseguenza, trasferiti in Albania e sottoposti a procedure accelerate per respingere le loro domande di asilo. Il modo in cui le loro vite vengono gestite appare simile a quello di una merce indesiderata che deve essere rapidamente smaltita. Questa “accelerazione” nel rifiuto delle richieste di asilo rispecchia la logica del consumo rapido e dello scarto efficiente.

Conclusione 

Il caso dei migranti trattenuti in Albania rappresenta un esempio concreto delle dinamiche di esclusione, ghettizzazione e trattamento delle vite umane come “scarti” che Bauman analizza. La loro condizione è frutto di un sistema che li considera irrilevanti e li sposta ai margini, cercando di tenerli lontani dalle strutture centrali del potere e del benessere sociale. Questo riflette una realtà contemporanea in cui le vite non integrate nei meccanismi economici e politici dominanti vengono rapidamente scartate o confinate.

  1. Baraggino, Franz. “Albania, le motivazioni dei giudici di Roma che hanno negato la convalida al trattenimento dei migranti: ‘Insussistenza dei presupposti’.” Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2024. <https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/10/05/migranti-in-albania-la-corte-europea-censura-i-piani-dellitalia-cosa-dice-la-sentenza-ue-e-perche-e-un-problema-per-il-governo/7718566/> ↩︎
  2. Bauman, Zygmunt. Vite di scarto. Bari: Laterza, 2007 ↩︎

Fragilità, Robustezza, Antifragilità

“Se non sei esposto a conseguenze negative delle tue decisioni, sei separato dalla realtà. Gli esseri umani devono avere ‘skin in the game’ affinché i loro comportamenti siano etici e le loro scelte razionali.” Nicholas Taleb

Nassim Nicholas Taleb nel libro “Antifragile, prosperare nel disordine” il Saggiatore, 2012, introduce un nuovo modo di categorizzare i sistemi, superando la semplice dicotomia tra fragilità e robustezza. Mentre i sistemi fragili sono danneggiati o distrutti dagli shock (come un vaso di vetro che si rompe se scosso), quelli robusti resistono agli shock ma non ne traggono alcun beneficio (come una pietra che rimane intatta sotto pressione).

L’antifragile, invece, non solo sopravvive agli shock e al disordine, ma ne trae beneficio. Un esempio concreto è il corpo umano: l’esercizio fisico stressa i muscoli, che però diventano più forti grazie a questo stress. L’antifragilità è una caratteristica fondamentale per tutto ciò che ha la possibilità di migliorare attraverso la volatilità, l’incertezza e gli eventi imprevedibili.

Critica alla tecnocrazia e alla sovraingegnerizzazione

Definisce la tecnocrazia come il tentativo di risolvere problemi complessi attraverso l’eccessiva regolamentazione, la pianificazione centralizzata o il controllo tecnologico. Ritiene che i sistemi sovraingegnerizzati siano spesso fragili perché non possono adattarsi rapidamente a cambiamenti imprevisti. Il fallimento di questi sistemi, di solito molto complessi e rigidi, si manifesta drammaticamente durante eventi estremi. Un esempio di sovraingegnerizzazione è la crisi finanziaria del 2008, in cui sistemi finanziari complessi e rigidi sono collassati di fronte a eventi imprevisti.

In alternativa, promuove la decentralizzazione e la riduzione della complessità come mezzi per creare sistemi più flessibili e adattabili. Sistemi semplici, meno centralizzati e più “organici” sono maggiormente in grado di adattarsi e prosperare nel disordine.

L’etica del rischio: “Skin in the game”

Taleb introduce il concetto di “skin in the game” (letteralmente “pelle in gioco”), che riflette un’etica del rischio. Chi prende decisioni che impattano su altri dovrebbe essere personalmente esposto alle conseguenze di tali decisioni. Non deve giocare con la pelle degli altri, ma mettere la sua “pelle  in gioco”. Questo è un principio fondamentale dell’antifragilità: chi è responsabile di un rischio dovrebbe anche subirne il peso, il che riduce la tendenza a fare scelte azzardate senza considerare gli effetti negativi su altri.

Sono fortemente criticabili i leader politici, economici e manageriali che non mettono la “pelle in gioco”, ossia non subiscono le conseguenze negative delle proprie decisioni. Ad esempio, molti banchieri responsabili della crisi finanziaria non hanno pagato personalmente per i danni che hanno causato, poiché il sistema ha socializzato le perdite mentre privatizzava i guadagni. Questo è un esempio di fragilità nel sistema, poiché chi prende rischi non è incentivato a gestirli in modo avveduto.

In un sistema antifragile, la responsabilità e il rischio sono condivisi, creando incentivi per decisioni migliori e una maggiore resilienza. Suggerisce che la vera responsabilità si ottiene solo quando chi è al potere è esposto direttamente agli stessi rischi di coloro che è chiamato a rappresentare o guidare.

L’idea centrale di Taleb è che non si può eliminare il rischio dalla vita, ma si può trovare un modo per far sì che il rischio porti a una crescita e a un miglioramento, anziché alla distruzione. L’antifragilità è quindi una strategia per affrontare il mondo moderno, caratterizzato da complessità, incertezza e volatilità.

Il nuovo sistema di accesso agli studi medico-scientifici

“L’istruzione tende a riprodurre la struttura della distribuzione del capitale culturale tra le classi sociali, trasformando l’eredità culturale in successo scolastico e, quindi, in titoli scolastici che conferiscono un vantaggio in termini di accesso alle posizioni sociali superiori.” Pierre Bourdieu

Il modello francese

Il sistema francese consente agli studenti di iniziare il primo anno di studi medico-sanitari senza test d’ingresso iniziale, ma la selezione avviene al termine del primo anno. Durante questo anno, gli studenti frequentano corsi comuni per diverse discipline sanitarie (medicina, odontoiatria, farmacia, ostetricia), affrontando esami impegnativi. Solo coloro che superano questi esami con i migliori risultati sono ammessi al secondo anno di studi.

Il vantaggio di questo modello è che offre a un numero più ampio di studenti l’opportunità di dimostrare il proprio impegno e capacità sul campo, piuttosto che basare l’accesso esclusivamente su un test di ammissione preliminare. Tuttavia, rimane un sistema altamente selettivo che porta a una scrematura importante alla fine del primo anno.

L’accento su meritocrazia e inclusione

L’Italia sta prendendo spunto da questo sistema, proponendo una modifica che consente l’accesso aperto al primo semestre di medicina, seguito da una selezione basata sui risultati ottenuti in quel periodo, con l’obiettivo di rendere il processo di selezione più meritocratico e inclusivo.

Pierre Bourdieu sostiene che il sistema educativo non sia neutrale, ma al contrario, contribuisca a perpetuare la stratificazione sociale. La scuola favorisce coloro che già possiedono il capitale culturale e sociale necessario per avere successo. Gli studenti provenienti dalle classi dominanti accedono più facilmente a livelli superiori di istruzione, mentre quelli delle classi subordinate faticano ad adattarsi a un sistema che non riconosce il loro background. Il risultato è una riproduzione delle disuguaglianze di classe, che vengono giustificate attraverso l’idea di merito. Questo processo rende la gerarchia sociale stabile, poiché chi ha già privilegi li mantiene grazie all’accesso più agevole alle risorse educative.

Habitus e riproduzione delle diseguaglianze

Nel contesto educativo l’habitus, concetto centrale nel pensiero di Bordieu, influenza come gli studenti percepiscono il mondo e come si comportano all’interno delle istituzioni scolastiche. Gli studenti delle classi sociali più basse interiorizzano inconsciamente aspettative limitate e adattano le loro ambizioni e comportamenti di conseguenza, accettando implicitamente le loro posizioni nella gerarchia sociale. Al contrario, gli studenti delle classi dominanti si sentono più a loro agio e sicuri di sé, poiché le loro predisposizioni culturali sono in linea con le aspettative scolastiche.

In sintesi, Bordieu nella sua ricerca pubblicata nel libro “La riproduzione”1 evidenzia che l’istruzione, lungi dall’essere un processo di equa distribuzione delle opportunità, contribuisca attivamente alla riproduzione delle disuguaglianze sociali. La modifica del sistema di accesso alla facoltà di medicina, lungi dal temperare questa tendenza, rischia di accentuarla.

Una rappresentazione cinematografica del sistema di accesso francese agli studi medico-scientifici si trova nel film “Il primo anno” Regia di Thomas Lilti, Francia, 2018.

  1. Pierre Bourdieu, La riproduzione, Guaraldi, 2006 ↩︎

Rischi politici e sociali nella società globale: il caso dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente

“Nella società del rischio, diventiamo consapevoli del fatto che la sicurezza assoluta è un’illusione, e che il tentativo di creare una sicurezza totale può generare nuovi pericoli. In un mondo globalizzato, i rischi non conoscono confini.” Ulrich Beck

Nel contesto della società del rischio descritta da Ulrich Beck1, i rischi politici e sociali giocano un ruolo cruciale nella gestione delle crisi globali. Le guerre e i conflitti, in particolare, rappresentano una forma di rischio amplificato dalla globalizzazione, dove le decisioni di una singola nazione possono avere ripercussioni su scala planetaria. Gli attuali conflitti tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas sono esempi emblematici di come il rischio politico e sociale non solo colpisca direttamente le popolazioni locali, ma abbia anche implicazioni globali.

Crisi di fiducia nelle istituzioni e gestione dei conflitti

Secondo Beck, una delle caratteristiche della società del rischio è la crisi di fiducia nelle istituzioni politiche, spesso incapaci di prevenire o risolvere conflitti complessi e transnazionali. Questo fenomeno è evidente nel contesto della guerra in Ucraina e nel conflitto israelo-palestinese.

  • Nel caso della guerra tra Russia e Ucraina, l’invasione russa del 2022 ha scatenato una crisi internazionale di ampia portata. Le istituzioni internazionali, come l’ONU, l’UE e la NATO, si sono dimostrate limitate nel prevenire il conflitto e nel gestirne le conseguenze. La stessa Russia ha sfidato le norme internazionali, mettendo in discussione il ruolo degli organismi multilaterali nella risoluzione dei conflitti.
  • Allo stesso modo, nel conflitto tra Israele e Hamas, assistiamo a una situazione in cui le istituzioni internazionali faticano a promuovere una risoluzione duratura. La sfiducia diffusa sia a livello regionale che internazionale ha complicato gli sforzi diplomatici, mentre le tensioni aumentano non solo tra i protagonisti diretti, ma anche tra le potenze internazionali coinvolte.

Rischio come strumento di potere

Beck analizza anche come i rischi vengano spesso strumentalizzati politicamente. Nel contesto dei conflitti in Ucraina e Medio Oriente, i governi e le parti in causa utilizzano la percezione del rischio come leva per mantenere o estendere il proprio potere.

  • La Russia ha giustificato la sua invasione come una forma di “protezione” contro l’espansione della NATO, dipingendo l’Occidente come una minaccia esistenziale. In questo caso, il rischio politico e militare è stato utilizzato per giustificare un’azione bellica e consolidare il potere interno.
  • Nel conflitto tra Israele e Hamas, il rischio del terrorismo e della violenza viene sfruttato sia da Hamas che dal governo israeliano. Hamas presenta le sue azioni come una resistenza all’occupazione, mentre Israele giustifica le operazioni militari in risposta agli attacchi come necessarie per la sicurezza nazionale. Entrambe le parti utilizzano il rischio percepito per legittimare il loro potere e le loro azioni militari, a scapito di una soluzione pacifica.

Disuguaglianza nell’esposizione ai rischi

Un tema chiave di Beck è la distribuzione diseguale dei rischi all’interno delle società. Nei conflitti in corso, questa disuguaglianza è evidente sia a livello nazionale che internazionale.

  • In Ucraina, la popolazione civile è stata colpita in modo sproporzionato dagli effetti devastanti della guerra, dalle perdite di vite umane alla distruzione delle infrastrutture. Molte aree urbane sono diventate teatri di battaglia, lasciando le persone comuni a pagare il prezzo più alto. Mentre l’élite politica e militare è in gran parte protetta, le persone comuni affrontano il rischio quotidiano della violenza e della perdita delle loro case.
  • Allo stesso modo, nel conflitto tra Israele e Hamas, i civili di entrambe le parti, sia israeliani che palestinesi, subiscono le conseguenze più gravi. I palestinesi, in particolare, vivono in condizioni di vulnerabilità estrema, esposti non solo agli attacchi diretti, ma anche alle conseguenze dell’assedio di Gaza, come la mancanza di accesso ai beni di prima necessità e alle cure mediche. Una commissione di inchiesta delle Nazioni Unite ha accusato lo stato ebraico di sterminio.

Questa disuguaglianza nella gestione dei rischi non si limita ai confini nazionali, ma si riflette anche nel ruolo delle potenze internazionali. Ad esempio, mentre le nazioni occidentali forniscono supporto militare e diplomatico all’Ucraina e Israele, altre nazioni del mondo, in particolare nei paesi in via di sviluppo, subiscono gli effetti indiretti della guerra, come l’aumento dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari.

Politica del rischio e decisioni collettive

Nel contesto della società del rischio, le decisioni politiche riguardano non solo la distribuzione delle risorse, ma anche la distribuzione dei rischi. I governi devono prendere decisioni difficili su come affrontare i rischi transnazionali, come nel caso dei conflitti in corso.

  • Nel conflitto russo-ucraino, i paesi europei e la NATO hanno dovuto bilanciare il rischio di un confronto diretto con la Russia con la necessità di sostenere l’Ucraina. Questo ha portato a una politica di contenimento e di sostegno militare indiretto, per evitare il rischio di un’escalation nucleare o di un conflitto diretto tra Russia e Occidente.
  • Nella gestione del conflitto tra Israele e Hamas, le potenze regionali e internazionali devono fare i conti con i rischi associati a un’escalation del conflitto. Ogni intervento rischia di destabilizzare ulteriormente la regione e di alimentare nuove ondate di violenza. Le decisioni politiche in questo contesto sono spesso intrappolate in una logica di gestione dell’emergenza, piuttosto che in una prospettiva di lungo termine per la pace.

Nuove forme di governance e cooperazione internazionale

Beck propone che la gestione dei rischi globali richieda nuove forme di governance e una maggiore cooperazione internazionale. Questo è particolarmente rilevante nei conflitti attuali, dove le risposte nazionali sembrano insufficienti.

  • Nel caso della guerra in Ucraina, la risposta delle istituzioni internazionali, come l’ONU, è stata ampiamente criticata per la sua inefficacia. Tuttavia, l’esistenza di sanzioni economiche e misure diplomatiche dimostra la necessità di una governance globale più efficace per affrontare i conflitti armati.
  • Nel conflitto israelo-palestinese, la mancanza di una soluzione politica duratura richiede un approccio globale che coinvolga non solo le parti in conflitto, ma anche le principali potenze internazionali e regionali. Beck suggerisce che solo una governance multilaterale può affrontare i rischi a lungo termine, prevenendo ulteriori escalation di violenza.

Conclusione

I conflitti tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas sono esempi emblematici di come i rischi politici e sociali nella società globale si intreccino, con conseguenze devastanti non solo per le popolazioni locali, ma anche per la stabilità internazionale. La gestione dei rischi globali richiede una cooperazione internazionale rafforzata e una nuova concezione della governance, in grado di affrontare le sfide transnazionali in modo più efficace e inclusivo. Le attuali istituzioni, pur svolgendo un ruolo importante, devono essere ripensate per adattarsi a un mondo in cui il rischio è globale e la sicurezza non può più essere garantita solo a livello nazionale.


  1. Ulrich Beck, La società del rischio, Carricci Editore, 2013 ↩︎

Emmanuel Todd: La crisi dell’Occidente e il declino dell’egemonia

“La crisi dell’Occidente è il motore del momento storico che stiamo vivendo. Alcuni ne erano già a conoscenza, ma, quando la guerra sarà conclusa, nessuno potrà più negarlo.” — Emmanuel Todd

Emmanuel Todd, antropologo e storico francese, è noto per le sue analisi lungimiranti su temi geopolitici e culturali. Nel suo ultimo libro, “La sconfitta dell’Occidente”1, Todd esplora il declino dell’Occidente, evidenziando come la crisi in Ucraina sia solo la manifestazione esterna di una crisi interna ben più profonda. Secondo Todd, l’Occidente soffre di una crisi demografica, economica e morale che ne sta erodendo l’egemonia globale.

Nel libro, Todd analizza non solo la dimensione geopolitica, ma anche fattori culturali e sociologici, come il declino delle strutture familiari e della natalità in Occidente, elementi che considera segnali di un declino più profondo. La sua analisi mette a confronto le “oligarchie liberali occidentali” con la “democrazia autoritaria russa”, offrendo una visione complessa dei cambiamenti geopolitici attuali e futuri.

Todd mette in evidenza come l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti e l’Europa, sia entrato in una fase di “auto-allucinazione”, non riconoscendo il fallimento delle proprie politiche, soprattutto in Ucraina, dove l’esercito ucraino, secondo le sue recenti dichiarazioni, starebbe crollando.La resilienza della Russia viene contrapposta alla crescente fragilità delle istituzioni occidentali, ormai incapaci di affrontare le sfide globali. Le sanzioni contro la Russia, anziché indebolirla, hanno evidenziato l’inflazione e la crisi economica in Europa.

Todd attribuisce questa crisi anche a un nichilismo delle classi dirigenti occidentali, che, piuttosto che affrontare i problemi interni, continuano a seguire politiche avventate. Utilizzando un approccio interdisciplinare, basato su sociologia, antropologia ed economia, Todd offre una lettura globale delle trasformazioni geopolitiche, mettendo in luce la decadenza dell’Occidente rispetto a potenze emergenti o stabilizzate come la Russia.

Le sue tesi, sebbene controverse, stanno guadagnando sempre più attenzione nel dibattito internazionale, offrendo spunti per una riflessione profonda sul futuro delle democrazie liberali e sull’ordine mondiale.

  1. Emmanuel Todd, La sconfitta dell’Occidente, Fazi Editore ↩︎

La religione come costruzione sociale: il caso degli ebrei e dello Stato di Israele

“La religione è il tentativo umano di costruire un ordine significativo, un nomos, che conferisca senso alla vita, alle esperienze, e all’universo stesso.” Peter L. Berger1

Secondo Peter Berger, la religione gioca un ruolo fondamentale nella costruzione della realtà sociale, conferendo significato, stabilità e legittimazione alle strutture della società. Tre concetti centrali nelle sue riflessioni — l’esternalizzazione e oggettivazione, la sacralizzazione e la legittimazione dell’ordine sociale — sono particolarmente utili per comprendere la situazione degli ebrei e la formazione dello Stato di Israele.

Esternalizzazione e oggettivazione: la costruzione dell’identità ebraica

La comunità ebraica ha esternalizzato le proprie credenze e pratiche religiose attraverso millenni di storia, trasformando queste credenze in una realtà oggettiva che è andata oltre l’esperienza individuale. La Torah, le festività ebraiche, e le tradizioni legate all’identità religiosa e culturale hanno dato forma a un’identità collettiva forte, anche nei secoli di diaspora. La oggettivazione di queste pratiche ha creato un senso di appartenenza a una comunità “reale” e tangibile, malgrado la mancanza di un territorio per molti secoli.

Il ritorno degli ebrei nella Terra d’Israele e la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 rappresentano una fase ulteriore di questo processo. Il sionismo, movimento politico ebraico fondato alla fine del XIX secolo, ha esternalizzato l’idea di uno Stato ebraico come un “luogo reale” dove la comunità ebraica potesse finalmente oggettivare la propria identità nazionale, accanto a quella religiosa. In questo modo, Israele non è solo un’entità politica, ma anche una proiezione simbolica di un’identità religiosa e culturale.

Sacralizzazione: la Terra Promessa come parte dell’ordine sacro

Nel pensiero di Berger, la sacralizzazione è il processo attraverso il quale certi aspetti della realtà vengono elevati a una dimensione sacra e inviolabile. Per il popolo ebraico, la Terra d’Israele non è solo un territorio, ma un elemento sacro della propria tradizione religiosa. La Bibbia ebraica, e in particolare la narrazione dell’Esodo, descrive Israele come la Terra Promessa da Dio al popolo ebraico, legittimando così la relazione storica e religiosa tra gli ebrei e la terra.

Questo processo di sacralizzazione rende il legame tra gli ebrei e Israele qualcosa di più che un legame politico: è una parte intrinseca della costruzione della realtà sociale e religiosa ebraica. La sacralizzazione della terra contribuisce a rafforzare l’idea che Israele sia non solo una patria moderna, ma un elemento del disegno divino, il che ne rende difficile qualsiasi discussione esclusivamente politica o diplomatica.

Legittimazione dell’ordine sociale: Israele come Stato legittimato religiosamente

Berger sottolinea che la religione funge da meccanismo di legittimazione dell’ordine sociale, fornendo giustificazioni e norme che stabilizzano e rafforzano le strutture della società. Per molti ebrei, lo Stato di Israele è legittimato non solo dal diritto internazionale, ma anche da una legittimazione religiosa che deriva dalle promesse bibliche e dalla tradizione millenaria.

In questo contesto, la religione diventa un potente strumento per sostenere l’esistenza dello Stato e la sua missione. Anche nei momenti di crisi politica o di conflitti territoriali, il richiamo alla legittimità religiosa rafforza la coesione nazionale e la convinzione nella giustezza della causa ebraica. Tuttavia, ciò pone anche sfide significative, specialmente quando l’ordine sociale e religioso di Israele si scontra con altre narrazioni religiose e politiche, come nel caso del conflitto israelo-palestinese.

Conclusione

Le riflessioni di Peter Berger sul ruolo della religione nella costruzione sociale offrono una chiave di lettura utile per comprendere la storia e l’identità del popolo ebraico, così come il significato profondo dello Stato di Israele. L’esternalizzazione dell’identità ebraica attraverso i secoli, la sacralizzazione della Terra Promessa e la legittimazione religiosa dello Stato israeliano mostrano come la religione possa modellare non solo la vita spirituale, ma anche la realtà sociale e politica di una nazione.

  1. Peter L. Berger, The Sacred Canopy: Elements of a Sociological Theory of Religion (1967). ↩︎

IA come reti sociali e/o mercati

Secondo Michael I. Jordan, la visione corrente dell’intelligenza artificiale, concentrata prevalentemente sull’IA generativa e i chatbot, è limitata. Jordan propone di vedere l’IA come un sistema complesso di agenti autonomi che collaborano e competono in modo dinamico, come in un mercato globale. Questo sistema di intelligenza si basa su interazioni continue, in cui ogni agente si adatta e negozia con gli altri, proprio come fanno gli attori nei mercati economici.

La teoria statistica dei contratti: Intelligenza distribuita

Jordan utilizza la “teoria statistica dei contratti” come base per la sua visione. L’idea è di creare sistemi di IA che non si limitano a fare previsioni singole ma che interagiscono e apprendono costantemente, adattandosi alle condizioni mutevoli. Gli algoritmi diventano agenti autonomi che lavorano insieme seguendo regole contrattuali, proprio come farebbero le persone all’interno di una negoziazione o di un mercato finanziario.

Un approccio iterativo: Interazione continua tra agenti

Jordan sostiene che l’apprendimento automatico tradizionale, che si basa su previsioni singole, è limitato. Egli propone invece un approccio iterativo, in cui gli agenti intelligenti si adattano e interagiscono costantemente, creando un sistema in cui il cambiamento è continuo e dinamico. Questo modello riflette il comportamento dei mercati economici, dove ogni decisione è influenzata dalle scelte degli altri partecipanti.

 L’intelligenza come interazione sociale: Un nuovo paradigma

Il concetto chiave della visione di Jordan è che l’intelligenza non deve essere vista solo come una capacità individuale, ma come un sistema sociale e contrattuale. L’IA, in questo senso, diventa un insieme di agenti che interagiscono tra loro, scambiando dati e decisioni, proprio come avviene nei mercati finanziari. Non si tratta di creare “menti artificiali”, ma di studiare le relazioni tra agenti in un sistema complesso.

 Una nuova traiettoria per l’IA: Oltre i chatbot

 Jordan si distingue dalle tendenze attuali dell’IA, rappresentate principalmente da chatbot e modelli come ChatGPT, che si basano su previsioni e risposte preimpostate. La sua visione è quella di un’IA capace di creare dinamiche complesse attraverso le interazioni tra agenti, un modello più vicino a come funzionano le reti sociali e i mercati. L’intelligenza, in questo contesto, è sociale e contrattuale, non meramente predittiva.

Michael I. Jordan, An Alternative View on AI: Collaborative Learning, Incentives, and Social Welfare, <https://www.youtube.com/watch?v=3zlDHdtSXt4>

Antonio Dini, Intelligenza artificiale, perché ha senso immaginarla come fosse un mercato, <https://www.wired.it/article/intelligenza-artificiale-michael-i-jordan-agenti-mercato/>

L’ IA potrebbe superare l’intelligenza umana?

Negli ultimi anni, l’idea che l’intelligenza artificiale (IA) possa superare l’intelligenza umana è diventata sempre più discussa, generando entusiasmo, preoccupazione e una serie di fraintendimenti. Tuttavia, quando parliamo di “superamento”, è importante capire che ci sono molti aspetti e sfumature da considerare.

Intelligenza: una definizione complessa

Il concetto di “intelligenza” è di per sé problematico e ambiguo. Anche tra filosofi e scienziati, non esiste un accordo univoco su cosa significhi veramente. Tradizionalmente, l’intelligenza umana è stata misurata in base a una serie di abilità cognitive come il problem solving, il ragionamento logico e la capacità di apprendere. Ma questa misurazione ha sempre incontrato difficoltà, poiché l’intelligenza non è un concetto unidimensionale. È influenzata da fattori emotivi, sociali, e creativi, e si manifesta in modi diversi a seconda del contesto.

IA supera l'intelligenza umana

Quando si parla di IA che potrebbe superare l’intelligenza umana, si fa solitamente riferimento alla capacità delle macchine di elaborare grandi quantità di dati e svolgere compiti specifici meglio e più velocemente degli esseri umani. Già oggi, le IA superano gli esseri umani in ambiti specifici, come il riconoscimento di immagini, la traduzione di testi e il calcolo numerico. Ma si tratta davvero di “intelligenza” nel senso umano del termine?

Superamento quantitativo o qualitativo?

Uno degli equivoci più diffusi riguarda la natura del superamento. Molte delle affermazioni sulla superiorità dell’IA si concentrano sul superamento quantitativo, cioè la capacità delle macchine di svolgere certe attività in modo più efficiente rispetto agli esseri umani. Ma un superamento qualitativo, cioè la capacità di pensare in modo critico, avere intuizioni creative o affrontare dilemmi morali, è tutt’altro discorso.

Attualmente, le IA sono molto potenti nel risolvere problemi complessi all’interno di confini ben definiti. Tuttavia, non sono in grado di gestire situazioni ambigue o sconosciute senza essere guidate da dati precedenti. La loro “intelligenza” è limitata da ciò che possono apprendere dai set di dati su cui vengono addestrate.

Il problema dei conflitti di interesse

Nel dibattito sull’IA, è inevitabile che entrino in gioco interessi economici e politici. Grandi figure come Elon Musk e Sam Altman, insieme ad altre personalità della tecnologia, spesso amplificano l’idea di un’IA in grado di superare l’intelligenza umana. Ma questo discorso non è sempre imparziale. Il rischio è che tali previsioni non siano solo speculative, ma anche finalizzate a ottenere maggiori investimenti e regolamentazioni più favorevoli per le grandi aziende tecnologiche.

Spesso, l’enfasi sui rischi a lungo termine e su scenari futuristici serve a costruire una narrativa che posiziona queste aziende come attori chiave nell’affrontare tali sfide. Il risultato è che la percezione pubblica tende a vedere l’IA come una forza inarrestabile e inevitabile, quando in realtà siamo ancora lontani da un’intelligenza artificiale generale (AGI), cioè un’IA capace di fare tutto ciò che un essere umano è in grado di fare.

Fraintendimenti sul ruolo dell’IA

Infine, il dibattito spesso trascura un punto cruciale: anche se le IA dovessero “superare” gli esseri umani in certe capacità, questo non significherebbe necessariamente che le macchine possiedano coscienza o pensiero indipendente. Il pensiero umano è influenzato da esperienze soggettive, emozioni e un senso di identità che le IA, per ora, non possono emulare. Quindi, parlare di un superamento dell’intelligenza umana da parte dell’IA implica una ridefinizione di cosa intendiamo per “intelligenza”.

Conclusioni

In sintesi, il superamento dell’intelligenza umana da parte di quella artificiale è una questione complessa, che dipende da come definiamo il concetto di “intelligenza” e da quali ambiti consideriamo rilevanti. Se parliamo di pura potenza computazionale, le IA ci hanno già superato. Ma se guardiamo alle capacità critiche che rendono l’essere umano unico – creatività, empatia e intuizione – il discorso cambia radicalmente. L’intelligenza umana non è solo una questione di prestazioni tecniche, ma di esperienze e valori che le macchine, per ora, non possono replicare.

Confronta l’articolo su <ilpost.it> “In che senso l’intelligenza artificiale potrebbe superare quella umana?

Giornata Internazionale della Salute Mentale

In occasione di questa ricorrenza, il Presidente Mattarella sottolinea che «il pregiudizio e la disinformazione che la circondano impediscono a molti di farsi aiutare… E il fenomeno è ancora più preoccupante quando interessa giovani che… si trovano ad affrontare una pressione spesso insostenibile». Mattarella
La sfida della salute mentale dei giovani è una delle più urgenti, anche perché oggi molti di loro un lavoro stabile non lo hanno, aggravando l’insicurezza del futuro.

Giornata internazionale della salute mentale

I sociologi da tempo hanno individuato che l’evoluzione sociale attuale mette in crisi i modelli di formazione dell’identità delle nuove generazioni, con inevitabili conseguenze per la loro salute mentale. Antonella Spanò (2018)1 osserva: «In conseguenza delle profonde trasformazioni economiche e sociali, la transizione all’età adulta appare ben più ardua che nel passato… La fine del lavoro full time-full life ha condannato un’intera generazione alla precarietà».

Ulrich Beck descrive bene questo fenomeno: «Le forme tradizionali e istituzionali… vanno perdendo di significato ed efficacia. Ai nostri giorni, è dagli individui che si pretende il controllo di inquietudini e timori… Da quest’obbligo crescente a elaborare da sé l’insicurezza sorgono nuove richieste all’indirizzo delle istituzioni sociali» (Beck, 2008)2.

David Lazzari, Presidente del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, evidenzia: «Oggi siamo nella società ‘fluida’… Le scelte si sono moltiplicate e con esse anche l’ansia verso una realtà non ben definita… la realtà fisica è stata in gran parte sostituita dalla realtà virtuale».

  • Antonella Spanò, Studiare i giovani nel mondo che cambia, Introduzione, Franco Angeli Edizioni, Milano, 2018 ↩︎
  • Ulrich Beck, Costruire la propria vita, Il Mulino, Bologna, 2008 p.115 ↩︎
  • One man’s terrorist is another man’s freedom fighter

    La definizione di “terrorismo” è profondamente legata alla prospettiva da cui si osserva un conflitto. Le azioni violente possono essere interpretate come atti di terrore o come lotta per la libertà, a seconda di chi ne è spettatore e dei valori in gioco. Andrea Salvatore (2019) analizza come la violenza possa essere strumentalizzata per fini politici, mostrando che la linea tra combattenti per la libertà e terroristi è spesso sfumata. Similmente, Antonio Cerella (2009) mette in luce la difficoltà di tracciare una netta distinzione tra terrorismo e resistenza legittima.

    La scelta tra autorità e libertà

    Max Weber osserva: «Nessuna etica del mondo può prescindere dal fatto che il raggiungimento di fini “buoni” è il più delle volte accompagnato dall’uso di mezzi sospetti o per lo meno pericolosi… ciò vale in modo particolare per chi combatta per una fede, tanto religiosa quanto rivoluzionaria». Questa riflessione ci invita a considerare come l’uso della violenza possa assumere significati diversi a seconda del contesto.

    Anche Hannah Arendt ci mette in guardia: «La sostanza stessa dell’azione violenta è governata dalla categoria mezzi-fine, la cui caratteristica principale, se applicata agli affari umani, è sempre stata che il fine corre il pericolo di venire sopraffatto dai mezzi che esso giustifica» (Arendt, 1970). Questo ci ricorda quanto sia complesso bilanciare gli obiettivi e i mezzi utilizzati per raggiungerli.

    Il dibattito su chi debba essere considerato terrorista o combattente per la libertà continua a essere attuale, sfidandoci a riflettere sui confini della giustizia e dell’etica in situazioni di conflitto.

    Fonti:

    • Salvatore, Andrea (2019). Violenza, terrore, politica: per una definizione del concetto di terrorismo.
    • Cerella, Antonio (2009). Terrorismo: storia e analisi di un concetto. Trasgressioni, 49(3), 41-59.
    • Arendt, Hannah (1970). On Violence. Tr. it. Sulla violenza, Parma, Guanda, 1996.
    • Max Weber (1919), La politica come professione, Armando Editore, 1997