Rischi politici e sociali nella società globale: il caso dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente

“Nella società del rischio, diventiamo consapevoli del fatto che la sicurezza assoluta è un’illusione, e che il tentativo di creare una sicurezza totale può generare nuovi pericoli. In un mondo globalizzato, i rischi non conoscono confini.” Ulrich Beck

Nel contesto della società del rischio descritta da Ulrich Beck1, i rischi politici e sociali giocano un ruolo cruciale nella gestione delle crisi globali. Le guerre e i conflitti, in particolare, rappresentano una forma di rischio amplificato dalla globalizzazione, dove le decisioni di una singola nazione possono avere ripercussioni su scala planetaria. Gli attuali conflitti tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas sono esempi emblematici di come il rischio politico e sociale non solo colpisca direttamente le popolazioni locali, ma abbia anche implicazioni globali.

Crisi di fiducia nelle istituzioni e gestione dei conflitti

Secondo Beck, una delle caratteristiche della società del rischio è la crisi di fiducia nelle istituzioni politiche, spesso incapaci di prevenire o risolvere conflitti complessi e transnazionali. Questo fenomeno è evidente nel contesto della guerra in Ucraina e nel conflitto israelo-palestinese.

  • Nel caso della guerra tra Russia e Ucraina, l’invasione russa del 2022 ha scatenato una crisi internazionale di ampia portata. Le istituzioni internazionali, come l’ONU, l’UE e la NATO, si sono dimostrate limitate nel prevenire il conflitto e nel gestirne le conseguenze. La stessa Russia ha sfidato le norme internazionali, mettendo in discussione il ruolo degli organismi multilaterali nella risoluzione dei conflitti.
  • Allo stesso modo, nel conflitto tra Israele e Hamas, assistiamo a una situazione in cui le istituzioni internazionali faticano a promuovere una risoluzione duratura. La sfiducia diffusa sia a livello regionale che internazionale ha complicato gli sforzi diplomatici, mentre le tensioni aumentano non solo tra i protagonisti diretti, ma anche tra le potenze internazionali coinvolte.

Rischio come strumento di potere

Beck analizza anche come i rischi vengano spesso strumentalizzati politicamente. Nel contesto dei conflitti in Ucraina e Medio Oriente, i governi e le parti in causa utilizzano la percezione del rischio come leva per mantenere o estendere il proprio potere.

  • La Russia ha giustificato la sua invasione come una forma di “protezione” contro l’espansione della NATO, dipingendo l’Occidente come una minaccia esistenziale. In questo caso, il rischio politico e militare è stato utilizzato per giustificare un’azione bellica e consolidare il potere interno.
  • Nel conflitto tra Israele e Hamas, il rischio del terrorismo e della violenza viene sfruttato sia da Hamas che dal governo israeliano. Hamas presenta le sue azioni come una resistenza all’occupazione, mentre Israele giustifica le operazioni militari in risposta agli attacchi come necessarie per la sicurezza nazionale. Entrambe le parti utilizzano il rischio percepito per legittimare il loro potere e le loro azioni militari, a scapito di una soluzione pacifica.

Disuguaglianza nell’esposizione ai rischi

Un tema chiave di Beck è la distribuzione diseguale dei rischi all’interno delle società. Nei conflitti in corso, questa disuguaglianza è evidente sia a livello nazionale che internazionale.

  • In Ucraina, la popolazione civile è stata colpita in modo sproporzionato dagli effetti devastanti della guerra, dalle perdite di vite umane alla distruzione delle infrastrutture. Molte aree urbane sono diventate teatri di battaglia, lasciando le persone comuni a pagare il prezzo più alto. Mentre l’élite politica e militare è in gran parte protetta, le persone comuni affrontano il rischio quotidiano della violenza e della perdita delle loro case.
  • Allo stesso modo, nel conflitto tra Israele e Hamas, i civili di entrambe le parti, sia israeliani che palestinesi, subiscono le conseguenze più gravi. I palestinesi, in particolare, vivono in condizioni di vulnerabilità estrema, esposti non solo agli attacchi diretti, ma anche alle conseguenze dell’assedio di Gaza, come la mancanza di accesso ai beni di prima necessità e alle cure mediche. Una commissione di inchiesta delle Nazioni Unite ha accusato lo stato ebraico di sterminio.

Questa disuguaglianza nella gestione dei rischi non si limita ai confini nazionali, ma si riflette anche nel ruolo delle potenze internazionali. Ad esempio, mentre le nazioni occidentali forniscono supporto militare e diplomatico all’Ucraina e Israele, altre nazioni del mondo, in particolare nei paesi in via di sviluppo, subiscono gli effetti indiretti della guerra, come l’aumento dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari.

Politica del rischio e decisioni collettive

Nel contesto della società del rischio, le decisioni politiche riguardano non solo la distribuzione delle risorse, ma anche la distribuzione dei rischi. I governi devono prendere decisioni difficili su come affrontare i rischi transnazionali, come nel caso dei conflitti in corso.

  • Nel conflitto russo-ucraino, i paesi europei e la NATO hanno dovuto bilanciare il rischio di un confronto diretto con la Russia con la necessità di sostenere l’Ucraina. Questo ha portato a una politica di contenimento e di sostegno militare indiretto, per evitare il rischio di un’escalation nucleare o di un conflitto diretto tra Russia e Occidente.
  • Nella gestione del conflitto tra Israele e Hamas, le potenze regionali e internazionali devono fare i conti con i rischi associati a un’escalation del conflitto. Ogni intervento rischia di destabilizzare ulteriormente la regione e di alimentare nuove ondate di violenza. Le decisioni politiche in questo contesto sono spesso intrappolate in una logica di gestione dell’emergenza, piuttosto che in una prospettiva di lungo termine per la pace.

Nuove forme di governance e cooperazione internazionale

Beck propone che la gestione dei rischi globali richieda nuove forme di governance e una maggiore cooperazione internazionale. Questo è particolarmente rilevante nei conflitti attuali, dove le risposte nazionali sembrano insufficienti.

  • Nel caso della guerra in Ucraina, la risposta delle istituzioni internazionali, come l’ONU, è stata ampiamente criticata per la sua inefficacia. Tuttavia, l’esistenza di sanzioni economiche e misure diplomatiche dimostra la necessità di una governance globale più efficace per affrontare i conflitti armati.
  • Nel conflitto israelo-palestinese, la mancanza di una soluzione politica duratura richiede un approccio globale che coinvolga non solo le parti in conflitto, ma anche le principali potenze internazionali e regionali. Beck suggerisce che solo una governance multilaterale può affrontare i rischi a lungo termine, prevenendo ulteriori escalation di violenza.

Conclusione

I conflitti tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas sono esempi emblematici di come i rischi politici e sociali nella società globale si intreccino, con conseguenze devastanti non solo per le popolazioni locali, ma anche per la stabilità internazionale. La gestione dei rischi globali richiede una cooperazione internazionale rafforzata e una nuova concezione della governance, in grado di affrontare le sfide transnazionali in modo più efficace e inclusivo. Le attuali istituzioni, pur svolgendo un ruolo importante, devono essere ripensate per adattarsi a un mondo in cui il rischio è globale e la sicurezza non può più essere garantita solo a livello nazionale.


  1. Ulrich Beck, La società del rischio, Carricci Editore, 2013 ↩︎

Emmanuel Todd: La crisi dell’Occidente e il declino dell’egemonia

“La crisi dell’Occidente è il motore del momento storico che stiamo vivendo. Alcuni ne erano già a conoscenza, ma, quando la guerra sarà conclusa, nessuno potrà più negarlo.” — Emmanuel Todd

Emmanuel Todd, antropologo e storico francese, è noto per le sue analisi lungimiranti su temi geopolitici e culturali. Nel suo ultimo libro, “La sconfitta dell’Occidente”1, Todd esplora il declino dell’Occidente, evidenziando come la crisi in Ucraina sia solo la manifestazione esterna di una crisi interna ben più profonda. Secondo Todd, l’Occidente soffre di una crisi demografica, economica e morale che ne sta erodendo l’egemonia globale.

Nel libro, Todd analizza non solo la dimensione geopolitica, ma anche fattori culturali e sociologici, come il declino delle strutture familiari e della natalità in Occidente, elementi che considera segnali di un declino più profondo. La sua analisi mette a confronto le “oligarchie liberali occidentali” con la “democrazia autoritaria russa”, offrendo una visione complessa dei cambiamenti geopolitici attuali e futuri.

Todd mette in evidenza come l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti e l’Europa, sia entrato in una fase di “auto-allucinazione”, non riconoscendo il fallimento delle proprie politiche, soprattutto in Ucraina, dove l’esercito ucraino, secondo le sue recenti dichiarazioni, starebbe crollando.La resilienza della Russia viene contrapposta alla crescente fragilità delle istituzioni occidentali, ormai incapaci di affrontare le sfide globali. Le sanzioni contro la Russia, anziché indebolirla, hanno evidenziato l’inflazione e la crisi economica in Europa.

Todd attribuisce questa crisi anche a un nichilismo delle classi dirigenti occidentali, che, piuttosto che affrontare i problemi interni, continuano a seguire politiche avventate. Utilizzando un approccio interdisciplinare, basato su sociologia, antropologia ed economia, Todd offre una lettura globale delle trasformazioni geopolitiche, mettendo in luce la decadenza dell’Occidente rispetto a potenze emergenti o stabilizzate come la Russia.

Le sue tesi, sebbene controverse, stanno guadagnando sempre più attenzione nel dibattito internazionale, offrendo spunti per una riflessione profonda sul futuro delle democrazie liberali e sull’ordine mondiale.

  1. Emmanuel Todd, La sconfitta dell’Occidente, Fazi Editore ↩︎

La religione come costruzione sociale: il caso degli ebrei e dello Stato di Israele

“La religione è il tentativo umano di costruire un ordine significativo, un nomos, che conferisca senso alla vita, alle esperienze, e all’universo stesso.” Peter L. Berger1

Secondo Peter Berger, la religione gioca un ruolo fondamentale nella costruzione della realtà sociale, conferendo significato, stabilità e legittimazione alle strutture della società. Tre concetti centrali nelle sue riflessioni — l’esternalizzazione e oggettivazione, la sacralizzazione e la legittimazione dell’ordine sociale — sono particolarmente utili per comprendere la situazione degli ebrei e la formazione dello Stato di Israele.

Esternalizzazione e oggettivazione: la costruzione dell’identità ebraica

La comunità ebraica ha esternalizzato le proprie credenze e pratiche religiose attraverso millenni di storia, trasformando queste credenze in una realtà oggettiva che è andata oltre l’esperienza individuale. La Torah, le festività ebraiche, e le tradizioni legate all’identità religiosa e culturale hanno dato forma a un’identità collettiva forte, anche nei secoli di diaspora. La oggettivazione di queste pratiche ha creato un senso di appartenenza a una comunità “reale” e tangibile, malgrado la mancanza di un territorio per molti secoli.

Il ritorno degli ebrei nella Terra d’Israele e la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 rappresentano una fase ulteriore di questo processo. Il sionismo, movimento politico ebraico fondato alla fine del XIX secolo, ha esternalizzato l’idea di uno Stato ebraico come un “luogo reale” dove la comunità ebraica potesse finalmente oggettivare la propria identità nazionale, accanto a quella religiosa. In questo modo, Israele non è solo un’entità politica, ma anche una proiezione simbolica di un’identità religiosa e culturale.

Sacralizzazione: la Terra Promessa come parte dell’ordine sacro

Nel pensiero di Berger, la sacralizzazione è il processo attraverso il quale certi aspetti della realtà vengono elevati a una dimensione sacra e inviolabile. Per il popolo ebraico, la Terra d’Israele non è solo un territorio, ma un elemento sacro della propria tradizione religiosa. La Bibbia ebraica, e in particolare la narrazione dell’Esodo, descrive Israele come la Terra Promessa da Dio al popolo ebraico, legittimando così la relazione storica e religiosa tra gli ebrei e la terra.

Questo processo di sacralizzazione rende il legame tra gli ebrei e Israele qualcosa di più che un legame politico: è una parte intrinseca della costruzione della realtà sociale e religiosa ebraica. La sacralizzazione della terra contribuisce a rafforzare l’idea che Israele sia non solo una patria moderna, ma un elemento del disegno divino, il che ne rende difficile qualsiasi discussione esclusivamente politica o diplomatica.

Legittimazione dell’ordine sociale: Israele come Stato legittimato religiosamente

Berger sottolinea che la religione funge da meccanismo di legittimazione dell’ordine sociale, fornendo giustificazioni e norme che stabilizzano e rafforzano le strutture della società. Per molti ebrei, lo Stato di Israele è legittimato non solo dal diritto internazionale, ma anche da una legittimazione religiosa che deriva dalle promesse bibliche e dalla tradizione millenaria.

In questo contesto, la religione diventa un potente strumento per sostenere l’esistenza dello Stato e la sua missione. Anche nei momenti di crisi politica o di conflitti territoriali, il richiamo alla legittimità religiosa rafforza la coesione nazionale e la convinzione nella giustezza della causa ebraica. Tuttavia, ciò pone anche sfide significative, specialmente quando l’ordine sociale e religioso di Israele si scontra con altre narrazioni religiose e politiche, come nel caso del conflitto israelo-palestinese.

Conclusione

Le riflessioni di Peter Berger sul ruolo della religione nella costruzione sociale offrono una chiave di lettura utile per comprendere la storia e l’identità del popolo ebraico, così come il significato profondo dello Stato di Israele. L’esternalizzazione dell’identità ebraica attraverso i secoli, la sacralizzazione della Terra Promessa e la legittimazione religiosa dello Stato israeliano mostrano come la religione possa modellare non solo la vita spirituale, ma anche la realtà sociale e politica di una nazione.

  1. Peter L. Berger, The Sacred Canopy: Elements of a Sociological Theory of Religion (1967). ↩︎

IA come reti sociali e/o mercati

Secondo Michael I. Jordan, la visione corrente dell’intelligenza artificiale, concentrata prevalentemente sull’IA generativa e i chatbot, è limitata. Jordan propone di vedere l’IA come un sistema complesso di agenti autonomi che collaborano e competono in modo dinamico, come in un mercato globale. Questo sistema di intelligenza si basa su interazioni continue, in cui ogni agente si adatta e negozia con gli altri, proprio come fanno gli attori nei mercati economici.

La teoria statistica dei contratti: Intelligenza distribuita

Jordan utilizza la “teoria statistica dei contratti” come base per la sua visione. L’idea è di creare sistemi di IA che non si limitano a fare previsioni singole ma che interagiscono e apprendono costantemente, adattandosi alle condizioni mutevoli. Gli algoritmi diventano agenti autonomi che lavorano insieme seguendo regole contrattuali, proprio come farebbero le persone all’interno di una negoziazione o di un mercato finanziario.

Un approccio iterativo: Interazione continua tra agenti

Jordan sostiene che l’apprendimento automatico tradizionale, che si basa su previsioni singole, è limitato. Egli propone invece un approccio iterativo, in cui gli agenti intelligenti si adattano e interagiscono costantemente, creando un sistema in cui il cambiamento è continuo e dinamico. Questo modello riflette il comportamento dei mercati economici, dove ogni decisione è influenzata dalle scelte degli altri partecipanti.

 L’intelligenza come interazione sociale: Un nuovo paradigma

Il concetto chiave della visione di Jordan è che l’intelligenza non deve essere vista solo come una capacità individuale, ma come un sistema sociale e contrattuale. L’IA, in questo senso, diventa un insieme di agenti che interagiscono tra loro, scambiando dati e decisioni, proprio come avviene nei mercati finanziari. Non si tratta di creare “menti artificiali”, ma di studiare le relazioni tra agenti in un sistema complesso.

 Una nuova traiettoria per l’IA: Oltre i chatbot

 Jordan si distingue dalle tendenze attuali dell’IA, rappresentate principalmente da chatbot e modelli come ChatGPT, che si basano su previsioni e risposte preimpostate. La sua visione è quella di un’IA capace di creare dinamiche complesse attraverso le interazioni tra agenti, un modello più vicino a come funzionano le reti sociali e i mercati. L’intelligenza, in questo contesto, è sociale e contrattuale, non meramente predittiva.

Michael I. Jordan, An Alternative View on AI: Collaborative Learning, Incentives, and Social Welfare, <https://www.youtube.com/watch?v=3zlDHdtSXt4>

Antonio Dini, Intelligenza artificiale, perché ha senso immaginarla come fosse un mercato, <https://www.wired.it/article/intelligenza-artificiale-michael-i-jordan-agenti-mercato/>

L’ IA potrebbe superare l’intelligenza umana?

Negli ultimi anni, l’idea che l’intelligenza artificiale (IA) possa superare l’intelligenza umana è diventata sempre più discussa, generando entusiasmo, preoccupazione e una serie di fraintendimenti. Tuttavia, quando parliamo di “superamento”, è importante capire che ci sono molti aspetti e sfumature da considerare.

Intelligenza: una definizione complessa

Il concetto di “intelligenza” è di per sé problematico e ambiguo. Anche tra filosofi e scienziati, non esiste un accordo univoco su cosa significhi veramente. Tradizionalmente, l’intelligenza umana è stata misurata in base a una serie di abilità cognitive come il problem solving, il ragionamento logico e la capacità di apprendere. Ma questa misurazione ha sempre incontrato difficoltà, poiché l’intelligenza non è un concetto unidimensionale. È influenzata da fattori emotivi, sociali, e creativi, e si manifesta in modi diversi a seconda del contesto.

IA supera l'intelligenza umana

Quando si parla di IA che potrebbe superare l’intelligenza umana, si fa solitamente riferimento alla capacità delle macchine di elaborare grandi quantità di dati e svolgere compiti specifici meglio e più velocemente degli esseri umani. Già oggi, le IA superano gli esseri umani in ambiti specifici, come il riconoscimento di immagini, la traduzione di testi e il calcolo numerico. Ma si tratta davvero di “intelligenza” nel senso umano del termine?

Superamento quantitativo o qualitativo?

Uno degli equivoci più diffusi riguarda la natura del superamento. Molte delle affermazioni sulla superiorità dell’IA si concentrano sul superamento quantitativo, cioè la capacità delle macchine di svolgere certe attività in modo più efficiente rispetto agli esseri umani. Ma un superamento qualitativo, cioè la capacità di pensare in modo critico, avere intuizioni creative o affrontare dilemmi morali, è tutt’altro discorso.

Attualmente, le IA sono molto potenti nel risolvere problemi complessi all’interno di confini ben definiti. Tuttavia, non sono in grado di gestire situazioni ambigue o sconosciute senza essere guidate da dati precedenti. La loro “intelligenza” è limitata da ciò che possono apprendere dai set di dati su cui vengono addestrate.

Il problema dei conflitti di interesse

Nel dibattito sull’IA, è inevitabile che entrino in gioco interessi economici e politici. Grandi figure come Elon Musk e Sam Altman, insieme ad altre personalità della tecnologia, spesso amplificano l’idea di un’IA in grado di superare l’intelligenza umana. Ma questo discorso non è sempre imparziale. Il rischio è che tali previsioni non siano solo speculative, ma anche finalizzate a ottenere maggiori investimenti e regolamentazioni più favorevoli per le grandi aziende tecnologiche.

Spesso, l’enfasi sui rischi a lungo termine e su scenari futuristici serve a costruire una narrativa che posiziona queste aziende come attori chiave nell’affrontare tali sfide. Il risultato è che la percezione pubblica tende a vedere l’IA come una forza inarrestabile e inevitabile, quando in realtà siamo ancora lontani da un’intelligenza artificiale generale (AGI), cioè un’IA capace di fare tutto ciò che un essere umano è in grado di fare.

Fraintendimenti sul ruolo dell’IA

Infine, il dibattito spesso trascura un punto cruciale: anche se le IA dovessero “superare” gli esseri umani in certe capacità, questo non significherebbe necessariamente che le macchine possiedano coscienza o pensiero indipendente. Il pensiero umano è influenzato da esperienze soggettive, emozioni e un senso di identità che le IA, per ora, non possono emulare. Quindi, parlare di un superamento dell’intelligenza umana da parte dell’IA implica una ridefinizione di cosa intendiamo per “intelligenza”.

Conclusioni

In sintesi, il superamento dell’intelligenza umana da parte di quella artificiale è una questione complessa, che dipende da come definiamo il concetto di “intelligenza” e da quali ambiti consideriamo rilevanti. Se parliamo di pura potenza computazionale, le IA ci hanno già superato. Ma se guardiamo alle capacità critiche che rendono l’essere umano unico – creatività, empatia e intuizione – il discorso cambia radicalmente. L’intelligenza umana non è solo una questione di prestazioni tecniche, ma di esperienze e valori che le macchine, per ora, non possono replicare.

Confronta l’articolo su <ilpost.it> “In che senso l’intelligenza artificiale potrebbe superare quella umana?

Giornata Internazionale della Salute Mentale

In occasione di questa ricorrenza, il Presidente Mattarella sottolinea che «il pregiudizio e la disinformazione che la circondano impediscono a molti di farsi aiutare… E il fenomeno è ancora più preoccupante quando interessa giovani che… si trovano ad affrontare una pressione spesso insostenibile». Mattarella
La sfida della salute mentale dei giovani è una delle più urgenti, anche perché oggi molti di loro un lavoro stabile non lo hanno, aggravando l’insicurezza del futuro.

Giornata internazionale della salute mentale

I sociologi da tempo hanno individuato che l’evoluzione sociale attuale mette in crisi i modelli di formazione dell’identità delle nuove generazioni, con inevitabili conseguenze per la loro salute mentale. Antonella Spanò (2018)1 osserva: «In conseguenza delle profonde trasformazioni economiche e sociali, la transizione all’età adulta appare ben più ardua che nel passato… La fine del lavoro full time-full life ha condannato un’intera generazione alla precarietà».

Ulrich Beck descrive bene questo fenomeno: «Le forme tradizionali e istituzionali… vanno perdendo di significato ed efficacia. Ai nostri giorni, è dagli individui che si pretende il controllo di inquietudini e timori… Da quest’obbligo crescente a elaborare da sé l’insicurezza sorgono nuove richieste all’indirizzo delle istituzioni sociali» (Beck, 2008)2.

David Lazzari, Presidente del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, evidenzia: «Oggi siamo nella società ‘fluida’… Le scelte si sono moltiplicate e con esse anche l’ansia verso una realtà non ben definita… la realtà fisica è stata in gran parte sostituita dalla realtà virtuale».

  • Antonella Spanò, Studiare i giovani nel mondo che cambia, Introduzione, Franco Angeli Edizioni, Milano, 2018 ↩︎
  • Ulrich Beck, Costruire la propria vita, Il Mulino, Bologna, 2008 p.115 ↩︎
  • One man’s terrorist is another man’s freedom fighter

    La definizione di “terrorismo” è profondamente legata alla prospettiva da cui si osserva un conflitto. Le azioni violente possono essere interpretate come atti di terrore o come lotta per la libertà, a seconda di chi ne è spettatore e dei valori in gioco. Andrea Salvatore (2019) analizza come la violenza possa essere strumentalizzata per fini politici, mostrando che la linea tra combattenti per la libertà e terroristi è spesso sfumata. Similmente, Antonio Cerella (2009) mette in luce la difficoltà di tracciare una netta distinzione tra terrorismo e resistenza legittima.

    La scelta tra autorità e libertà

    Max Weber osserva: «Nessuna etica del mondo può prescindere dal fatto che il raggiungimento di fini “buoni” è il più delle volte accompagnato dall’uso di mezzi sospetti o per lo meno pericolosi… ciò vale in modo particolare per chi combatta per una fede, tanto religiosa quanto rivoluzionaria». Questa riflessione ci invita a considerare come l’uso della violenza possa assumere significati diversi a seconda del contesto.

    Anche Hannah Arendt ci mette in guardia: «La sostanza stessa dell’azione violenta è governata dalla categoria mezzi-fine, la cui caratteristica principale, se applicata agli affari umani, è sempre stata che il fine corre il pericolo di venire sopraffatto dai mezzi che esso giustifica» (Arendt, 1970). Questo ci ricorda quanto sia complesso bilanciare gli obiettivi e i mezzi utilizzati per raggiungerli.

    Il dibattito su chi debba essere considerato terrorista o combattente per la libertà continua a essere attuale, sfidandoci a riflettere sui confini della giustizia e dell’etica in situazioni di conflitto.

    Fonti:

    • Salvatore, Andrea (2019). Violenza, terrore, politica: per una definizione del concetto di terrorismo.
    • Cerella, Antonio (2009). Terrorismo: storia e analisi di un concetto. Trasgressioni, 49(3), 41-59.
    • Arendt, Hannah (1970). On Violence. Tr. it. Sulla violenza, Parma, Guanda, 1996.
    • Max Weber (1919), La politica come professione, Armando Editore, 1997

    I giovani che si ritirano dal mondo sociale

    Hikikomori, un fenomeno che non si ferma

    Scrive Helene Pacitto sull’huffingtonpost.it <<Secondo i dati raccolti tramite l’uso dell’intelligenza artificiale dalla Soft-two co. ldt, una società specializzata in sondaggi, il 70% dei giovani giapponesi tra i 17 e i 30, avrebbe sviluppato una vera e propria fobia verso le conversazioni telefoniche.>>

    Nell’articolo si fa riferimento all’utilizzo dei mezzi di comunicazione alternativi come le chat per giustificare le difficoltà o l’insofferenza nell’uso del telefono. Dobbiamo porci però alcune domande che riguardano il sistema sociale in cui accadono tali comportamenti. Non parlo tanto del Giappone, eventualmente alcuni aspetti sono esacerbati in quel paese, ma piuttosto della “tarda modernità” che coinvolge con diversi gradi tutte le società occidentali. Cosa succede ai giovani nelle nostre società?

    <<I cambiamenti intervenuti nella società contemporanea hanno avuto un notevole impatto sui meccanismi di riproduzione della disuguaglianza. Come si è cercato di mostrare, anche fra gli oppositori della tesi dell’individualizzazione vi è un generalizzato riconoscimento del fatto che in un contesto attraversato da potenti processi di detradizionalizzazione nuove risorse – variamente definite come identity capital, personal skills, capacità di navigazione, life management skills, capacità di agency, riflessività – divengono cruciali nel sostenere le transizioni all’età adulta.>> 1

    Si da una grande importanza ai risultati prestazionali a cominciare dalla scuola tanto più quanto aumentano i gradi, (primaria, secondaria ecc.) fino ad arrivare all’università e/o al lavoro. Sui giovani pesa un carico di aspettative sociali di grande importanza. Quando i giovani non si sentono capaci di affrontare con successo le molte sfide, problemi, opportunità, difficoltà che hanno di fronte cosa succede? Carol S. Dweck ha raccolto i risultati di trent’anni di ricerche nel libro “Teorie del Sé”. La richiesta prestazionale è stata oggetto di uno studio particolare ed ha evidenziato interessanti e problematici effetti sulla capacità di affrontare gli obiettivi sfidanti e le difficolta da parte dei giovani.

    <<Un obiettivo di prestazione riguarda la misurazione della capacità. Questo tipo di obiettivo fa sì che gli studenti concentrino l’attenzione sulla valutazione di se stessi attraverso la prestazione. Di fronte ad un insuccesso potrebbero incolpare la propria intelligenza, dimostrando quindi una risposta di impotenza.
    Un obiettivo di padronanza riguarda invece il conoscere in modo approfondito nuovi argomenti. In tal caso, l’attenzione si concentra sul cercare strategie di apprendimento. Quando le cose non vanno bene, ciò non ha niente a che fare con l’intelligenza. Significa semplicemente che non sono ancora state trovate le strategie giuste per risolvere il compito.>> 2

    In una società che spinge fortemente su obiettivi di prestazione, in mancanza di una adeguata formazione su come porsi più correttamente obiettivi di padronanza, potrebbe essere comprensibile una risposta di impotenza in una parte di giovani meno attrezzati. (sarebbe interessante indagare anche sull’influenza degli habitus, ovvero dei contesti sociali, di questi ragazzi).

    1. Antonella Spanò, Studiare i giovani nel mondo che cambia, Franco Angeli 2018, edizione digitale, La questione della diseguaglianza nella tarda modernità, Premessa ↩︎
    2. Carol S. Dweck, Teorie del Sé. Edizioni Centro Studi Erikson, 2000, p.39 ↩︎

    Sciopero nella sanità

    Sciopero nazionale di 24 ore dei medici, dirigenti sanitari e degli infermieri oggi, martedì 5 dicembre 2023

    << Sono almeno 5 le ragioni della protesta di infermieri, ostetriche e professioni sanitarie ex legge n 43/2006: assunzioni di personale; detassazione di una parte della retribuzione; risorse congrue per il rinnovo del contratto di lavoro; depenalizzazione dell’atto medico; cancellazione dei tagli alle pensioni. >> si legge su ADNKronos.

    I sistemi sanitari dei paesi occidentali si fondano su uno specifico sogno/paradigma alimentato in modo consapevole o meno da media, università, industrie medicali e farmaceutiche e operatori della sanità: “Il sogno dell’eternità” che è il titolo di un saggio della sociologa canadese Céline Lafontaine

    << Con l’affermazione del biopotere come forma di governo delle società moderne, il mantenimento e il prolungamento della vita vanno via via imponendosi nella definizione del ruolo dello Stato, al punto che la salute e la sicurezza costituiscono, all’alba del XXI secolo, il cuore autentico di ogni lotta politica. Intruinsecamente legato al combattimentocontro la morte che caratterizza la modernità, il biopotere corrisponde alla logica del controllo securitariodella prevenzione sanitariae dell’intervento terapeutico che non cessa di intensificarsi nelle nostre società >> 1

    A volte le affermazioni dei sociologi appaiono quantomeno fastidiose, come spesso ricorda Bourdieu, ma che la sanità sia ormai un sistema fondante dello stato, il primo impegno che uno stato “civile” deve avere nei confronti dei suoi cittadini, viene riconosciuto anche da un famoso medico di emergenza che ha operato per tutta la vita nelle zone di guerra, Gino Strada:

    << Solo 9 miliardi dei 209 del Recovery Fund verranno usati per investimenti nel settore sanitario. Poco più del 4% per un settore fondamentale per la vita di tutti noi. Se neanche una pandemia epocale – con quasi 70 mila morti in Italia – riesce a farci riorganizzare le nostre priorità, stiamo perdendo l’ultima occasione per riformare le basi della società in cui vogliamo vivere >>

    Spesso si parla di sanità e di sistema sanitario quasi pensando a un sistema di nicchia, certo molto costoso ma ben lontano dai problemi fondamentali della società e del vivere sociale. Invece è al centro delle nostre società e merita una particolare attenzione, tanto quanto il sistema mediatico, politico-amministrativo, economico che si intrecciano occupandosi, o facendosi occupare dal sistema sanitario.

    Il sistema sanitario, come tutti gli altri sistemi, e forse più degli altri, è investito e quasi travolto dall’evoluzione tecnologica, sempre più risorse vengono impiegate per pagare l’industrai farmaceutica e quella medicale, per pagare il privato convenzionato, e le risorse per il sistema pubblico e in particolare per il personale che ci lavora, sanitario e amministrativo, tendono costantemente a diminuire costringendo gli operatori a reagire di fronte a questa situazione.

    1. Celine Lafontaine, Il sogno dell’eternità, Medusa editore, Milano 2009, p. 33 ↩︎

    Libertà e sicurezza

    Parigi, una donna velata grida Allahu Akbar, polizia spara.

    Il titolo dell’ANSA come prima impressione mi offre una immagine di società assediata, direi quasi in stato di guerra. Basta poco per scatenare una repressione che può arrivare a togliere la vita è il primo pensiero che mi viene. Fortunatamente non è così, leggete l’articolo. Sappiamo che i titoli servono per invogliare il lettore a leggere sorbendosi di conseguenza le pubblicità connesse. In ogni caso questo articolo mi ha portato a riprendere ancora una volta quel binomio tanto importante: libertà e sicurezza.

    Il sociologo Zygmunt Bauman scrive in più occasioni che sicurezza e libertà sono come poste su due piatti della stessa bilancia. Se aumenta la libertà delle persone aumenta conseguentemente anche l’insicurezza. D’altra parte se vogliamo aumentare la sicurezza dobbiamo in qualche modo aumentare i controlli limitando le libertà.

    .. i due elementi senza i quali l’esistenza umana è assai dura da sopportare, libertà e sicurezza, entrambi in pari modo pressanti e indispesabili sono molto difficili da conciliare senza attriti a volte attriti molto forti. Questi due elementi sono al contempo complementari e incompatibili ..
    L’acquisizione della sicurezza impone sempre il sacrificio della libertà, mentre quest’ultima può espandersi solo a spese della sicurezza. Ma la sicurezza senza libertà equivale alla schiavitù .. mentre la libertà senza sicurezza equivale ad essere abbandonati a se stessi.1

    In un suo scritto pubblicato su L’Espresso del 24-5-2012 afferma sul tema:

    Un secolo fa la storia umana veniva spesso rappresentata come storia del progredire della libertà, quasi fosse costantemente guidata in un’unica, immutabile direzione. Ma oggi i nuovi umori popolari indicano altrimenti. Il cammino della storia, ricorda più la traiettoria di un pendolo che una linea retta. Ai tempi in cui scriveva Freud ci si lamentava della mancanza di libertà, i suoi contemporanei erano pronti a rinunciare a gran parte della loro sicurezza in cambio dell’eliminazione dei vincoli imposti alle loro libertà. E lo hanno fatto. Ora però si moltiplicano i segnali secondo cui le persone rinuncerebbero a parte della propria libertà pur di essere emancipate dallo spettro dell’insicurezza esistenziale.

    Le Società sono costantemente alla ricerca di modalità atte a conciliare libertà e sicurezza, quanta libertà e quanta sicurezza sono compatibili con il benessere sociale e delle persone. Le forze politiche sono sempre in conflitto una con l’altra su questa definizione anche se tutte sostengono la libertà (a volte anche nel nome) appaggiando fortemente la sicurezza, oppure fanno della sicurezza un caposaldo dei loro programmi difendendo a spada tratta la libertà.

    La conciliazione di libertà e sicurezza è un biettivo difficile da raggiungere, forse impossibile, ma solitamente le forze politiche non ritengono fondamentale che i programmi e i loro slogan siano effettivamente realizzabili. Bauman conclude la riflessione sottolineando che quando si parla di sacrificio della libertà in nome della sicurezza, o della sicurezza in nome della libertà, ci si riferisce di norma alla libertà o alla sicurezza altrui.

    1. Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, GLF Editori Laterza, Bari-Roma, 2001, p. 20 ↩︎