Polizia irrompe  nelle librerie Educational Bookshop di Gerusalemme

Scrive Sarah Parenzo su Il Manifesto: “«Lo Stato di Israele contro Ahmad e Mahmoud Muna»: così si apre il protocollo dell’udienza tenutasi questo lunedì mattina presso il Tribunale di I grado di Gerusalemme. A difendere gli imputati dall’accusa di «turbamento dell’ordine pubblico» è l’avvocato Nasser Odeh, ma questa volta non si tratta del solito caso di palestinesi dall’identità anonima e per capirlo basta gettare un’occhiata fuori dall’aula. Nel corridoio siedono in fila rappresentanti diplomatici di Gran Bretagna, Belgio, Brasile, Francia, Svizzera, Irlanda, Svezia, Paesi Bassi e dell’Unione europea, mentre all’esterno ha luogo una manifestazione di solidarietà nella quale i dimostranti espongono cartelli con la scritta: «Non c’è santità in una città occupata». Mahmoud e Ahmad, rispettivamente zio e nipote, sono infatti a loro volta intellettuali, attivisti e imprenditori culturali, ma soprattutto gestori della celebre catena di librerie Educational bookshop, istituzione e tappa obbligata per ogni diplomatico, giornalista, attivista o ricercatore in visita a Gerusalemme est.” [1]

Michel Foucault è stato uno dei pensatori più influenti del XX secolo sul rapporto tra conoscenza e potere. Nei suoi studi, ha mostrato come il sapere non sia mai neutrale, ma sia sempre legato a sistemi di potere che lo producono e lo regolano. Il suo lavoro è fondamentale per comprendere fenomeni come la censura, il controllo dell’informazione e la costruzione della verità.

Foucault ci aiuta a vedere come il controllo della conoscenza non sia mai neutrale, ma sia sempre un’espressione del potere. Nel caso dell’Educational Bookshop, possiamo analizzare:

Il controllo del discorso (quali narrazioni sono permesse e quali no),

Il sapere come strumento di potere (chi decide cosa è “pericoloso”),

Le tecniche di disciplina e sorveglianza (autocensura e repressione),

La biopolitica e il controllo della cultura (regolazione dell’identità collettiva),

Le possibilità di resistenza (solidarietà e contro-narrazioni).


1. Archeologia del Sapere e il Ruolo dei Discorsi

Uno dei contributi fondamentali di Foucault è l’analisi dei discorsi come strutture che organizzano la conoscenza in un determinato periodo storico. Nel suo libro “L’archeologia del sapere”, Foucault mostra come la conoscenza non si sviluppi in modo lineare o progressivo, ma sia soggetta a trasformazioni determinate da regole culturali e politiche spesso invisibili.
Secondo Foucault, ogni epoca ha una propria episteme, cioè un insieme di regole che definiscono ciò che è considerato “vero” o “falso”. Queste regole non derivano solo da scoperte scientifiche o da dati oggettivi, ma sono il risultato di processi storici e sociali.

Educational Bookshop: l’accusa di diffondere “testi di istigazione al terrorismo” potrebbe essere vista come un tentativo di ridefinire i confini del discorso accettabile, stabilendo cosa può essere detto e cosa no all’interno di una specifica episteme.


2. Il Sapere come Strumento di Potere

Foucault rifiuta l’idea che il potere sia solo qualcosa che reprime e censura. Nel suo concetto di “potere-sapere”, dimostra che il potere non è solo negativo (cioè repressivo), ma anche produttivo: crea categorie, istituzioni, discipline e persino identità.
Ad esempio, nella società moderna, il sapere medico non solo descrive la malattia, ma costruisce anche la figura del “malato” come soggetto specifico. Allo stesso modo, il sapere giuridico crea la categoria del “criminale”.
Il potere è quindi diffuso ovunque e si esercita attraverso le istituzioni, le norme, il linguaggio e i discorsi.

Educational Bookshop: qui vediamo il potere operare nella costruzione del “pericolo” legato alla diffusione di determinati libri. La criminalizzazione della cultura palestinese attraverso la confisca dei testi potrebbe essere interpretata come una forma di biopolitica (vedi sotto), in cui lo Stato cerca di disciplinare e controllare la popolazione attraverso il sapere.


3. Sorveglianza e Disciplina

Nel libro “Sorvegliare e punire”, Foucault analizza l’evoluzione delle tecniche di controllo sociale, mostrando come nelle società moderne il potere non si eserciti più solo attraverso la violenza fisica, ma attraverso forme di sorveglianza e normalizzazione.
Un esempio centrale è quello del Panopticon, un modello di prigione ideato dal filosofo Jeremy Bentham, in cui i detenuti non possono vedere chi li sorveglia, ma sanno di poter essere osservati in ogni momento. Questo genera un’autodisciplina: le persone interiorizzano la sorveglianza e si comportano come se fossero sempre controllate.
Per Foucault, questo principio non riguarda solo le prigioni, ma tutte le istituzioni moderne: scuole, ospedali, fabbriche, uffici e, oggi, i media e le piattaforme digitali.

Educational Bookshop: il raid e la confisca dei libri servono non solo a eliminare determinati testi, ma anche a generare un effetto di autocensura: librai e intellettuali potrebbero evitare di trattare certi temi per paura di ritorsioni.


4. Biopolitica e il Controllo della Vita

Nel suo ultimo periodo, Foucault sviluppa il concetto di biopolitica, ovvero il modo in cui il potere moderno non si limita a governare i territori, ma disciplina direttamente la vita delle persone, regolando la salute, la riproduzione, la sessualità e persino l’accesso al sapere.
La biopolitica si manifesta attraverso leggi, istituzioni e pratiche che determinano chi ha il diritto di vivere e chi no (thanatopolitica). Ad esempio, le politiche migratorie, le pratiche di censura, il controllo delle informazioni e delle identità culturali sono tutte espressioni di biopolitica.

Educational Bookshop: il sequestro dei libri e l’arresto dei librai fanno parte di una strategia di biopolitica in cui lo Stato cerca di ridefinire non solo la narrazione storica, ma anche chi ha il diritto di raccontarla e diffonderla.


5. Resistenza e Contropoteri

Nonostante il potere sia pervasivo, Foucault non lo vede come assoluto e insormontabile. Dove c’è potere, ci sono sempre forme di resistenza. Le lotte per la libertà di espressione, le pratiche di contro-narrazione e la diffusione alternativa del sapere sono forme di resistenza al potere.
Per Foucault, non esiste un’unica “verità” da difendere, ma un campo di battaglia tra discorsi e interpretazioni. L’obiettivo non è trovare una verità assoluta, ma smascherare i meccanismi attraverso cui certe conoscenze vengono imposte come universali.

Educational Bookshop: la solidarietà internazionale, le proteste e l’acquisto di libri in risposta al raid sono forme di resistenza che rimettono in discussione il controllo del sapere imposto dallo Stato.


[1] Sarah Parenzo: <https://ilmanifesto.it/irruzione-alleducational-bookshop-libri-confiscati-e-proprietari-in-manette>

Il pensiero di Saskia Sassen sui paradossi della globalizzazione e la giustizia Sovranazionale

Saskia Sassen ha dedicato gran parte della sua ricerca a studiare gli effetti della globalizzazione sullo spazio urbano, sul potere politico e sulla governance globale. Un aspetto centrale del suo pensiero riguarda i paradossi della globalizzazione, ovvero come le dinamiche transnazionali creino nuove opportunità di regolazione e giustizia, ma al tempo stesso generino esclusione e concentrazione del potere. Questo si riflette anche nel ruolo delle istituzioni sovranazionali, come la Corte Penale Internazionale (CPI).


1. Il Paradosso della sovranità: Stati indeboliti ma potere accentrato

  • La globalizzazione ha eroso il concetto tradizionale di sovranità nazionale, trasferendo parte del potere decisionale a istituzioni transnazionali (come l’ONU, il WTO e la CPI).
  • Tuttavia, questo non ha portato a una maggiore equità globale, ma piuttosto a una frammentazione del potere: alcuni stati (soprattutto i più deboli o periferici) vedono limitata la loro capacità di autodeterminazione, mentre i grandi attori globali (multinazionali, potenze economiche) continuano a dominare.
  • Contraddizione: la giustizia internazionale dovrebbe essere universale, ma nella pratica colpisce più facilmente i leader di stati deboli, mentre le grandi potenze trovano spesso modi per aggirarla o ignorarla.

La Corte Penale Internazionale

  • La CPI ha perseguito leader di paesi africani e di stati meno influenti, ma è stata meno efficace nell’affrontare crimini di guerra commessi da grandi potenze.
  • Alcuni stati (come gli USA, la Cina e la Russia) non riconoscono la giurisdizione della CPI, limitandone l’efficacia.

2. Il Paradosso della regolazione: più norme, meno controllo democratizzante

  • La globalizzazione ha creato un aumento delle normative internazionali, inclusi trattati sui diritti umani e meccanismi di giustizia globale.
  • Tuttavia, queste regolazioni sono spesso decise da élite tecnocratiche senza un vero coinvolgimento democratico.
  • La CPI, ad esempio, opera come un’istituzione autonoma, ma chi ne determina l’agenda? In teoria, dovrebbe agire sulla base di principi universali, ma in pratica subisce pressioni politiche.

3. Il Paradosso dell’esclusione: espansione globale vs. marginalizzazione

  • Mentre la globalizzazione ha favorito l’integrazione economica e legale a livello globale, ha anche escluso milioni di persone dai benefici di questa nuova governance.
  • Le istituzioni internazionali impongono regole e sanzioni, ma chi garantisce che queste norme proteggano davvero i più vulnerabili?
  • La CPI dovrebbe essere uno strumento per combattere l’impunità globale, ma nei fatti si scontra con disuguaglianze di potere che ne limitano l’azione.

4. Il Paradosso della giustizia: crimini globali, punizioni selettive

  • Sassen evidenzia che, sebbene la CPI sia un’istituzione fondamentale per la giustizia globale, essa non è ancora in grado di perseguire tutti i crimini in modo equo.
  • Gli stati e le grandi aziende responsabili di crisi economiche, danni ambientali, sfruttamento del lavoro sfuggono spesso alla giustizia internazionale.
  • Non esiste una “Corte Penale Internazionale per i crimini economici”, eppure le politiche di austerità e le pratiche di alcune multinazionali causano effetti devastanti su intere popolazioni.

Quale futuro per la giustizia sovranazionale?

Sassen suggerisce che la giustizia sovranazionale potrebbe evolversi in due direzioni:

  1. Verso una democratizzazione effettiva, con maggiore equità nella sua applicazione.
  2. Verso una strumentalizzazione del diritto, in cui le istituzioni internazionali diventino strumenti di potere per pochi attori globali.

In sintesi, la CPI rappresenta un progresso verso la giustizia globale, ma il suo funzionamento è ancora influenzato da asimmetrie di potere che ne limitano l’efficacia. Il rischio, secondo Sassen, è che la giustizia globale diventi un altro strumento di esclusione, piuttosto che di protezione universale.


  1. Saskia Sassen, Le città nell’economia globale, il Mulino, Bologna, 2004
  2. Saskia Sassen, Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore, Milano, 2002
  3. Saskia Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008
  4. Saskia Sassen, Una città nell’economia globale, Il Mulino, 2010
  5. Saskia Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, il Mulino, Bologna, 2015

Intelligenza artificiale e propaganda: perché le fake news diventano virali?

L’intelligenza artificiale sta rivoluzionando il modo in cui la propaganda politica si diffonde, rendendo ancora più semplice manipolare la realtà e creare contenuti che catturano l’attenzione e si diffondono viralmente. L’articolo di Giulio Cavalli, pubblicato su Left1, denuncia come alcune forze politiche, in particolare la destra italiana, stiano utilizzando immagini generate dall’IA per alimentare paure e pregiudizi, sfruttando una strategia precisa di manipolazione sociale.

Ma perché questi contenuti funzionano così bene? Il sociologo e esperto di marketing Jonah Berger, nel suo libro Contagioso. Perché un’idea e un prodotto hanno successo e si diffondono2, individua sei principi che spiegano perché certi contenuti si diffondono rapidamente. Analizzando la strategia descritta nell’articolo attraverso il lavoro di Berger, emergono alcune dinamiche chiave:

  1. Valuta sociale: Condividere immagini “scandalose” o “allarmanti” fa sentire gli utenti informati e rilevanti, rafforzando la propria identità politica.
  2. Stimoli: Le immagini si legano a temi sempre presenti nel dibattito pubblico, come immigrazione e identità culturale, funzionando come “promemoria” che spingono alla condivisione.
  3. Emozioni: Contenuti che suscitano rabbia o paura generano maggiore engagement, spingendo le persone ad agire e condividere.
  4. Visibilità pubblica: La standardizzazione estetica della propaganda (colori cupi, toni apocalittici) crea un marchio visivo riconoscibile, facilitando la diffusione.
  5. Valore pratico: Anche le fake news appaiono utili per chi le condivide, spesso come “avvertimenti” contro presunte minacce.
  6. Storie: Le immagini e i messaggi sono inseriti in narrazioni coinvolgenti che rafforzano una visione polarizzata del mondo.

La combinazione di questi fattori rende i contenuti generati dall’IA strumenti potentissimi di propaganda, capaci di sfruttare le vulnerabilità psicologiche e sociali degli utenti. Il risultato? Una realtà distorta, creata ad arte, che si sovrappone alla realtà vera, offuscandola.

Cosa possiamo fare?
Diventa essenziale promuovere strumenti di educazione digitale, incentivare il fact-checking e soprattutto sviluppare una consapevolezza critica sui meccanismi che rendono certi contenuti irresistibili. Solo comprendendo perché le fake news “attaccano” possiamo iniziare a difenderci.


Conclusione

L’IA può essere un megafono per la disinformazione, ma comprendere le strategie di viralità che la alimentano è il primo passo per smascherarne i pericoli. Come comunità, dobbiamo impegnarci a riconoscere e combattere queste dinamiche, costruendo un dialogo informato e basato su dati reali.

  1. Giulio Cavalli, L’intelligenza artificiale, il nuovo megafono della destra italiana, left.it, <https://left.it/2024/11/26/lintelligenza-artificiale-il-nuovo-megafono-della-destra-italiana/> ↩︎
  2. Jonah Berger, Contagioso. Perché un’idea e un prodotto hanno successo e si diffondono, ROI Edizioni, 2022 ↩︎

Genocidio, tabù e realtà: riflessioni su un’accusa difficile da pronunciare (parte 2)

Il ruolo della società civile e l’immaginario collettivo

Un altro aspetto chiave del pensiero di Semelin è il ruolo della società civile. I genocidi non sono opera esclusiva delle élite politiche o militari; coinvolgono la popolazione, che può agire come complice attiva o passiva.

Complicità sociale

In molti genocidi, la società civile partecipa alla violenza, o almeno la tollera. Questo è possibile perché la propaganda crea un consenso attorno all’idea che l’eliminazione del gruppo target sia necessaria per la sopravvivenza della comunità. Nel caso di Gaza, è importante interrogarsi su come le narrazioni globali ed interne influenzino le percezioni delle popolazioni coinvolte.

Il tabù del genocidio

Come sottolineato da Anna Foa, il termine “genocidio” è spesso considerato troppo carico di implicazioni morali e politiche per essere usato facilmente. Tuttavia, la riluttanza a usare questa parola può impedire un’analisi critica e tempestiva delle violenze in corso. Semelin ci ricorda che i genocidi non avvengono solo nei tribunali della Storia, ma si costruiscono giorno per giorno, attraverso azioni e omissioni.

Un messaggio universale: il genocidio come prodotto umano

Infine, Semelin ci invita a vedere il genocidio come un prodotto delle dinamiche umane, non come un evento eccezionale. Questo approccio ci consente di superare la tentazione di considerare il genocidio come qualcosa di alieno o irrazionale, attribuendolo solo a “mostri” o regimi totalitari. Il genocidio è un fenomeno sociale e culturale, che nasce dalle stesse dinamiche che regolano la vita quotidiana: le relazioni di potere, le identità collettive e la paura dell’altro.

Iinterrogarsi oggi

Il Papa, Anna Foa e Jacques Semelin ci offrono prospettive diverse ma complementari. Sollevare la questione del genocidio non significa necessariamente accusare, ma piuttosto invitare alla riflessione e alla vigilanza. In un mondo sempre più polarizzato, le parole contano: possono essere strumenti di pace o armi di distruzione.

Il nostro compito, come cittadini e studiosi, è quello di analizzare criticamente le dinamiche sociali e politiche che possono condurre alla violenza di massa, ricordando che prevenire il genocidio significa riconoscerne i segni prima che sia troppo tardi.

(parte 1)

Genocidio, tabù e realtà: riflessioni su un’accusa difficile da pronunciare (parte 1)

Il genocidio come tema attuale e controverso

Di recente, Papa Francesco ha sollevato una questione di enorme delicatezza, proponendo di indagare se quanto accade a Gaza possa essere considerato un genocidio. Le sue parole, contenute nel libro La speranza non delude mai, hanno suscitato forti reazioni. Da una parte, l’Ambasciata israeliana presso la Santa Sede ha risposto con fermezza, ricordando che il massacro del 7 ottobre è stato il vero atto genocida. Dall’altra, la storica Anna Foa ha accolto positivamente l’intervento del Papa 1, evidenziando come il termine “genocidio” sia un tabù in Israele, anche tra i più critici verso il governo.

La questione del genocidio è al centro di un dibattito che coinvolge storici, sociologi e studiosi di scienze politiche. Come definire e riconoscere un genocidio? E quali sono le implicazioni morali e politiche di questa accusa?

Per rispondere a queste domande, è utile ricorrere al pensiero di Jacques Semelin, studioso di genocidi e massacri di massa, che ha fornito strumenti teorici per analizzare fenomeni di questo tipo senza semplificazioni ideologiche o morali.

Genocidio: un processo, non un evento improvviso

Semelin, nel suo libro Purficare e distruggere 2, sottolinea che il genocidio è un processo sociale graduale. Non è un’esplosione improvvisa di violenza, ma un fenomeno che si sviluppa in più fasi, spesso in risposta a crisi politiche, economiche o militari. Questa visione può aiutarci a comprendere la complessità di quanto avviene in contesti di conflitto, come quello israelo-palestinese.

La separazione tra “noi” e “loro”

Il genocidio inizia con la costruzione di un’alterità radicale. Attraverso propaganda e retoriche politiche, il gruppo bersaglio viene identificato come nemico, contaminante o pericoloso. Nel caso di Gaza, la retorica politica e mediatica contribuisce a rafforzare questa divisione, attribuendo responsabilità collettive e giustificando interventi militari come atti di autodifesa.

Deumanizzazione

Una delle fasi centrali del genocidio è la deumanizzazione del gruppo target. Questo processo trasforma le persone in categorie simboliche (terroristi, parassiti, nemici), rendendo accettabile la violenza contro di loro. Semelin ci invita a riflettere su come il linguaggio utilizzato dai leader politici e dai media possa favorire questa dinamica.

Escalation verso la distruzione fisica

La distruzione fisica di un gruppo, secondo Semelin, non è mai un atto spontaneo. Richiede pianificazione, organizzazione e complicità sociale. Anche nei contesti contemporanei, è necessario analizzare in che misura le istituzioni e la società civile contribuiscano a perpetuare o fermare la violenza.

Continua – parte 2

  1. Anna Maria Brogi, Foa: Genocidio? Parola tabù in Israele. Bene che il Papa l’abbia pronunciata, avvenire.it, visitato il 18 novembre 2024, <https://www.avvenire.it/mondo/pagine/l-intervista-una-parola-tabu-che-non-risuona-in-is> ↩︎
  2. Jacques Sémelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi, Torino, 2007 ↩︎

La disillusione elettorale e la teoria di Roberto Michels: uno sguardo sociologico

Negli ultimi anni il calo dell’affluenza elettorale è diventato un trend sempre più evidente. Perché sempre meno cittadini si recano alle urne? Un’utile chiave di lettura è offerta da Roberto Michels e dalla sua celebre Sociologia del partito politico1, che introduce la “legge ferrea dell’oligarchia”.

La legge ferrea dell’oligarchia

Secondo Michels, tutti i partiti politici, anche quelli fondati su principi democratici, tendono inevitabilmente a trasformarsi in organizzazioni oligarchiche. Questo avviene perché:

– La complessità organizzativa richiede una leadership permanente.

– I leader, col tempo, acquisiscono il controllo delle risorse e delle decisioni, distanziandosi dalla base.

– Le masse tendono a delegare passivamente, consolidando il potere delle élite.

Le implicazioni per l’affluenza elettorale

Questa dinamica oligarchica offre una spiegazione al fenomeno della disillusione elettorale:

1. Distacco tra élite e cittadini 

   Gli elettori percepiscono i leader dei partiti come distanti e più interessati al mantenimento del proprio potere che alla rappresentanza degli interessi collettivi. Questo genera una perdita di fiducia e motivazione al voto.  

2. Percezione di inutilità del voto 

   Se il potere è concentrato nelle mani di pochi e i partiti sembrano simili nelle loro proposte, molti cittadini possono ritenere che votare non abbia un reale impatto.

3. Partiti conservatori di fatto 

   Michels sottolinea che i partiti tendono a conservare lo status quo per preservare se stessi, perdendo la capacità di rappresentare le istanze di cambiamento richieste dalle fasce più giovani e marginalizzate.

4. Alienazione e apatia politica 

   Le élite partitiche, interessate a perpetuare il proprio potere, possono allontanare i cittadini più critici, che finiscono per sentirsi esclusi dai processi decisionali.

Un sistema in crisi?

La bassa affluenza elettorale può essere letta come un sintomo di una più ampia crisi di legittimità. Se i cittadini percepiscono la democrazia rappresentativa come un processo formale, incapace di rispondere ai bisogni reali, il sistema politico stesso viene messo in discussione.

Ripensare la partecipazione politica

Per invertire il trend del disinteresse elettorale, è necessario:

– Recuperare un rapporto autentico tra partiti e cittadini.

– Promuovere una maggiore partecipazione diretta nei processi decisionali.

– Riformare i meccanismi interni dei partiti per ridurre la concentrazione del potere.

La teoria di Michels ci invita a riflettere su come le dinamiche interne ai partiti influenzino il comportamento elettorale e sulla necessità di riscoprire nuove forme di partecipazione per restituire vitalità alla democrazia.

  1. Michels Roberto, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Il Mulino, Bologna, 1966 ↩︎

Migranti in Albania e ‘Vite di scarto’

Esaminando l’articolo del Fatto Quotidiano1 riguardante il trattenimento dei migranti in Albania e collegandolo con le teorie di Bauman sviluppate in ‘Vite di scarto’2, possiamo notare diverse connessioni tematiche, specialmente riguardo la marginalizzazione, la ghettizzazione e lo scarto umano.

‘Vite di scarto’ e migranti

Bauman descrive le “vite di scarto” come quelle persone che, in un contesto globalizzato, vengono considerate inutili dal sistema economico e sociale, proprio come gli oggetti rifiutati. Nell’articolo, i migranti trattenuti in Albania vengono trattati secondo una logica simile: sono persone “scartate” dalle politiche migratorie italiane, che cercano di gestirle in luoghi esterni al territorio nazionale (l’Albania in questo caso). Questi individui, spesso provenienti da paesi considerati sicuri per alcune categorie e non per altre, diventano parte di un processo di esclusione in cui vengono trattati come un “problema” da spostare e confinare fuori dai confini europei.

Esclusione sociale e ghettizzazione 

Il tentativo del governo italiano di trattenere i migranti in Albania rappresenta una forma di ghettizzazione geografica. Trasferendoli fuori dal proprio territorio, l’Italia cerca di creare una barriera fisica e simbolica tra sé e questi “scarti” umani. Bauman descrive questo fenomeno come parte di una strategia di esclusione sociale: le persone indesiderabili vengono spostate in spazi isolati, lontani dagli occhi del pubblico, dove possono essere controllate senza disturbare il resto della popolazione. Il trattenimento dei migranti in Albania è un esempio di come i governi possano tentare di confinare le persone “scartate” in aree marginali, lontano dai luoghi di appartenenza e dalle opportunità di integrazione.

Spreco umano e cultura del consumo

Bauman, nel parlare del “consumo” di vite umane, osserva come il capitalismo globalizzato generi continuamente persone che diventano “inutili” per il sistema, analoghe ai rifiuti prodotti dal consumo di beni materiali. Nell’articolo, i migranti sono trattati secondo una logica simile: vengono considerati “superflui” e, di conseguenza, trasferiti in Albania e sottoposti a procedure accelerate per respingere le loro domande di asilo. Il modo in cui le loro vite vengono gestite appare simile a quello di una merce indesiderata che deve essere rapidamente smaltita. Questa “accelerazione” nel rifiuto delle richieste di asilo rispecchia la logica del consumo rapido e dello scarto efficiente.

Conclusione 

Il caso dei migranti trattenuti in Albania rappresenta un esempio concreto delle dinamiche di esclusione, ghettizzazione e trattamento delle vite umane come “scarti” che Bauman analizza. La loro condizione è frutto di un sistema che li considera irrilevanti e li sposta ai margini, cercando di tenerli lontani dalle strutture centrali del potere e del benessere sociale. Questo riflette una realtà contemporanea in cui le vite non integrate nei meccanismi economici e politici dominanti vengono rapidamente scartate o confinate.

  1. Baraggino, Franz. “Albania, le motivazioni dei giudici di Roma che hanno negato la convalida al trattenimento dei migranti: ‘Insussistenza dei presupposti’.” Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2024. <https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/10/05/migranti-in-albania-la-corte-europea-censura-i-piani-dellitalia-cosa-dice-la-sentenza-ue-e-perche-e-un-problema-per-il-governo/7718566/> ↩︎
  2. Bauman, Zygmunt. Vite di scarto. Bari: Laterza, 2007 ↩︎

Rischi politici e sociali nella società globale: il caso dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente

“Nella società del rischio, diventiamo consapevoli del fatto che la sicurezza assoluta è un’illusione, e che il tentativo di creare una sicurezza totale può generare nuovi pericoli. In un mondo globalizzato, i rischi non conoscono confini.” Ulrich Beck

Nel contesto della società del rischio descritta da Ulrich Beck1, i rischi politici e sociali giocano un ruolo cruciale nella gestione delle crisi globali. Le guerre e i conflitti, in particolare, rappresentano una forma di rischio amplificato dalla globalizzazione, dove le decisioni di una singola nazione possono avere ripercussioni su scala planetaria. Gli attuali conflitti tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas sono esempi emblematici di come il rischio politico e sociale non solo colpisca direttamente le popolazioni locali, ma abbia anche implicazioni globali.

Crisi di fiducia nelle istituzioni e gestione dei conflitti

Secondo Beck, una delle caratteristiche della società del rischio è la crisi di fiducia nelle istituzioni politiche, spesso incapaci di prevenire o risolvere conflitti complessi e transnazionali. Questo fenomeno è evidente nel contesto della guerra in Ucraina e nel conflitto israelo-palestinese.

  • Nel caso della guerra tra Russia e Ucraina, l’invasione russa del 2022 ha scatenato una crisi internazionale di ampia portata. Le istituzioni internazionali, come l’ONU, l’UE e la NATO, si sono dimostrate limitate nel prevenire il conflitto e nel gestirne le conseguenze. La stessa Russia ha sfidato le norme internazionali, mettendo in discussione il ruolo degli organismi multilaterali nella risoluzione dei conflitti.
  • Allo stesso modo, nel conflitto tra Israele e Hamas, assistiamo a una situazione in cui le istituzioni internazionali faticano a promuovere una risoluzione duratura. La sfiducia diffusa sia a livello regionale che internazionale ha complicato gli sforzi diplomatici, mentre le tensioni aumentano non solo tra i protagonisti diretti, ma anche tra le potenze internazionali coinvolte.

Rischio come strumento di potere

Beck analizza anche come i rischi vengano spesso strumentalizzati politicamente. Nel contesto dei conflitti in Ucraina e Medio Oriente, i governi e le parti in causa utilizzano la percezione del rischio come leva per mantenere o estendere il proprio potere.

  • La Russia ha giustificato la sua invasione come una forma di “protezione” contro l’espansione della NATO, dipingendo l’Occidente come una minaccia esistenziale. In questo caso, il rischio politico e militare è stato utilizzato per giustificare un’azione bellica e consolidare il potere interno.
  • Nel conflitto tra Israele e Hamas, il rischio del terrorismo e della violenza viene sfruttato sia da Hamas che dal governo israeliano. Hamas presenta le sue azioni come una resistenza all’occupazione, mentre Israele giustifica le operazioni militari in risposta agli attacchi come necessarie per la sicurezza nazionale. Entrambe le parti utilizzano il rischio percepito per legittimare il loro potere e le loro azioni militari, a scapito di una soluzione pacifica.

Disuguaglianza nell’esposizione ai rischi

Un tema chiave di Beck è la distribuzione diseguale dei rischi all’interno delle società. Nei conflitti in corso, questa disuguaglianza è evidente sia a livello nazionale che internazionale.

  • In Ucraina, la popolazione civile è stata colpita in modo sproporzionato dagli effetti devastanti della guerra, dalle perdite di vite umane alla distruzione delle infrastrutture. Molte aree urbane sono diventate teatri di battaglia, lasciando le persone comuni a pagare il prezzo più alto. Mentre l’élite politica e militare è in gran parte protetta, le persone comuni affrontano il rischio quotidiano della violenza e della perdita delle loro case.
  • Allo stesso modo, nel conflitto tra Israele e Hamas, i civili di entrambe le parti, sia israeliani che palestinesi, subiscono le conseguenze più gravi. I palestinesi, in particolare, vivono in condizioni di vulnerabilità estrema, esposti non solo agli attacchi diretti, ma anche alle conseguenze dell’assedio di Gaza, come la mancanza di accesso ai beni di prima necessità e alle cure mediche. Una commissione di inchiesta delle Nazioni Unite ha accusato lo stato ebraico di sterminio.

Questa disuguaglianza nella gestione dei rischi non si limita ai confini nazionali, ma si riflette anche nel ruolo delle potenze internazionali. Ad esempio, mentre le nazioni occidentali forniscono supporto militare e diplomatico all’Ucraina e Israele, altre nazioni del mondo, in particolare nei paesi in via di sviluppo, subiscono gli effetti indiretti della guerra, come l’aumento dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari.

Politica del rischio e decisioni collettive

Nel contesto della società del rischio, le decisioni politiche riguardano non solo la distribuzione delle risorse, ma anche la distribuzione dei rischi. I governi devono prendere decisioni difficili su come affrontare i rischi transnazionali, come nel caso dei conflitti in corso.

  • Nel conflitto russo-ucraino, i paesi europei e la NATO hanno dovuto bilanciare il rischio di un confronto diretto con la Russia con la necessità di sostenere l’Ucraina. Questo ha portato a una politica di contenimento e di sostegno militare indiretto, per evitare il rischio di un’escalation nucleare o di un conflitto diretto tra Russia e Occidente.
  • Nella gestione del conflitto tra Israele e Hamas, le potenze regionali e internazionali devono fare i conti con i rischi associati a un’escalation del conflitto. Ogni intervento rischia di destabilizzare ulteriormente la regione e di alimentare nuove ondate di violenza. Le decisioni politiche in questo contesto sono spesso intrappolate in una logica di gestione dell’emergenza, piuttosto che in una prospettiva di lungo termine per la pace.

Nuove forme di governance e cooperazione internazionale

Beck propone che la gestione dei rischi globali richieda nuove forme di governance e una maggiore cooperazione internazionale. Questo è particolarmente rilevante nei conflitti attuali, dove le risposte nazionali sembrano insufficienti.

  • Nel caso della guerra in Ucraina, la risposta delle istituzioni internazionali, come l’ONU, è stata ampiamente criticata per la sua inefficacia. Tuttavia, l’esistenza di sanzioni economiche e misure diplomatiche dimostra la necessità di una governance globale più efficace per affrontare i conflitti armati.
  • Nel conflitto israelo-palestinese, la mancanza di una soluzione politica duratura richiede un approccio globale che coinvolga non solo le parti in conflitto, ma anche le principali potenze internazionali e regionali. Beck suggerisce che solo una governance multilaterale può affrontare i rischi a lungo termine, prevenendo ulteriori escalation di violenza.

Conclusione

I conflitti tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas sono esempi emblematici di come i rischi politici e sociali nella società globale si intreccino, con conseguenze devastanti non solo per le popolazioni locali, ma anche per la stabilità internazionale. La gestione dei rischi globali richiede una cooperazione internazionale rafforzata e una nuova concezione della governance, in grado di affrontare le sfide transnazionali in modo più efficace e inclusivo. Le attuali istituzioni, pur svolgendo un ruolo importante, devono essere ripensate per adattarsi a un mondo in cui il rischio è globale e la sicurezza non può più essere garantita solo a livello nazionale.


  1. Ulrich Beck, La società del rischio, Carricci Editore, 2013 ↩︎

One man’s terrorist is another man’s freedom fighter

La definizione di “terrorismo” è profondamente legata alla prospettiva da cui si osserva un conflitto. Le azioni violente possono essere interpretate come atti di terrore o come lotta per la libertà, a seconda di chi ne è spettatore e dei valori in gioco. Andrea Salvatore (2019) analizza come la violenza possa essere strumentalizzata per fini politici, mostrando che la linea tra combattenti per la libertà e terroristi è spesso sfumata. Similmente, Antonio Cerella (2009) mette in luce la difficoltà di tracciare una netta distinzione tra terrorismo e resistenza legittima.

La scelta tra autorità e libertà

Max Weber osserva: «Nessuna etica del mondo può prescindere dal fatto che il raggiungimento di fini “buoni” è il più delle volte accompagnato dall’uso di mezzi sospetti o per lo meno pericolosi… ciò vale in modo particolare per chi combatta per una fede, tanto religiosa quanto rivoluzionaria». Questa riflessione ci invita a considerare come l’uso della violenza possa assumere significati diversi a seconda del contesto.

Anche Hannah Arendt ci mette in guardia: «La sostanza stessa dell’azione violenta è governata dalla categoria mezzi-fine, la cui caratteristica principale, se applicata agli affari umani, è sempre stata che il fine corre il pericolo di venire sopraffatto dai mezzi che esso giustifica» (Arendt, 1970). Questo ci ricorda quanto sia complesso bilanciare gli obiettivi e i mezzi utilizzati per raggiungerli.

Il dibattito su chi debba essere considerato terrorista o combattente per la libertà continua a essere attuale, sfidandoci a riflettere sui confini della giustizia e dell’etica in situazioni di conflitto.

Fonti:

  • Salvatore, Andrea (2019). Violenza, terrore, politica: per una definizione del concetto di terrorismo.
  • Cerella, Antonio (2009). Terrorismo: storia e analisi di un concetto. Trasgressioni, 49(3), 41-59.
  • Arendt, Hannah (1970). On Violence. Tr. it. Sulla violenza, Parma, Guanda, 1996.
  • Max Weber (1919), La politica come professione, Armando Editore, 1997

Due popoli, due stati

Weber, lo Stato, il territorio e la violenza

La risoluzione ONU 181 – 1947 che istituiva lo Stato di Israele prevedeva che ci fosse anche lo stato Palestinese : “due popoli, due stati”, e divideva il territorio assegnando il 54% a Israele e il rimanente alla Palestina. Fu approvata a larga maggiornaza ma gli stati arabi non l’approvarono sottolineando la loro ferma opposizione alla creazione di uno stato di Israele. Quella risoluzione non è stata ancora applicata.

Nella sua tormentata nascita lo Stato si è creato poggiandosi sue pilastri ben identificati da Weber: territorio e violenza. Lo stato si è appropriato della violenza come unico a poterla agire in modo legittimo sia all’interno dei propri confini sia all’esterno per difendere prima i propri confini e la propria popolazione, poi anche la propria sicurezza (cosiddetta guerra al terrore) e infini anche i propri interessi. lo Stato si è conquistato il monopolio della violenza legittima.

L’attribuzione di terrorismo, benche estremamente difficile da definire, ha una importanza cruciale nella situazione drammatica che vivono Israele e la Palestina. Cruciale per giustificare da una parte e dall’altra l’uso di una violenza che appare quasi inaudita, e che ci lascia inorriditi. Ma che cosa è terrorismo chi sono i terroristi?

A questo cerca di rispondere Antonio Cerella nel suo saggio “Terrorismo: storia e analisi di un concetto”, e le sue conclusione sono:

Il terrorismo è un fenomeno essenzialmente politico. Intensamente politico. È proprio nella sua sostanza che trova la molteplicità delle sue forme, il suo carattere complesso, la sua fenomenologia spuria, messianica. L‟Ordine, infatti, per sua stessa essenza, non può che assumere forme de-finite. Il Disordine, al contrario, complica gli spazi, i gradi e le possibilità di adattamento e trasformazione, sicché è, nella sua essenza, l‟informe per eccellenza. È questo l‟humus terroristico, il suo locus vitae. Terrorismo è dunque questione di forme. Di forme che traducono “sostanze politiche”. E del linguaggio che tenta a sua volta di afferrare tali forme in bilico fra decostruzione e costruzione1

Avendo lo Stato il monopolio della violenza legittima, è molto difficile imputare allo Stato la responsabilità giuridica di azioni che potrebbero essere definite terroristiche, e qui forse ci troviamo di fronte all’ostacolo maggiore per il riconoscimento come Stato della Palestina. La ‘forma’ Stato della Palestina, molto più che insediamenti e territorio, appare ciò che pone seri problemi di riconoscimento ad Israele. E’ sempre molto difficile imputare ad uno Stato la responsabilità giuridica di comportamente terroristici.

Se oggi la Palestina fosse uno Stato giuridicamente riconosciuto a tutti gli effetti, lo Stato della Palestina non avrebbe forse, alla pari di ogni altro Stato, il diritto di usare la violenza per difendere il proprio teritorio e la propria popolazione da chi lo aggredisce, invade o minaccia? Non avrebbe diritto di difendere con la violenza la propria sicurezza e i propri interessi?

Nessuna etica del mondo può prescindere dal fatto che il raggiungimento di fini “buoni” è il più delle volte accompagnato dall‟uso di mezzi sospetti o per lo meno pericolosi… e nessuna etica può determinare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono “giustifichi” i mezzi e le altre conseguenze moralmente pericolose […] È il mezzo specifico della violenza legittima, semplicemente, come tale, messo a disposizione delle associazioni umane che determina la particolarità di ogni problema etico della politica… ciò vale in modo particolare per chi combatta per una fede, tanto religiosa quanto rivoluzionaria. […] Egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro ogni violenza. Max Weber 2

  1. Cerella, Antonio. “Terrorismo: storia e analisi di un concetto [Terrorism: Story and Analysis of a Concept].” Trasgressioni 49.3 (2009): 41-59. “.< https://core.ac.uk/reader/16414895 > ↩︎
  2. Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Milano, Mondadori, 2018 ↩︎